
Quando si sente parlare di politicamente corretto, l’immaginazione spazia dalle statue abbattute ai disclaimer posti davanti ad alcuni film, dalla cosiddetta cancel culture all’inclusività ad ogni costo.
Si tratta di questioni imparentate ma piuttosto diverse e la loro stessa confusione è alla base della sterilità di molti discorsi sul tema. Spesso chi si oppone alla “cancellazione” di un prodotto culturale, alla sua damnatio memoriae, invoca giustamente la contestualizzazione: è ovvio che quel film contiene stereotipi razzisti, è del 1939, è figlio del suo tempo! Siamo tutti adulti e vaccinati, possiamo fruirne con consapevolezza senza doverlo cancellare!
Ebbene, poi quando si fa letteralmente questo (contestualizzare e consapevolizzare), preponendo un disclaimer a Via col vento proprio per dargli una cornice e fruirne anche oggi, Salvini trasecola.
Di questa galassia, la cosiddetta inclusivity o representation non è che un sottoinsieme: consiste nel raffigurare esponenti di varie minoranze, in ragione della distorta preminenza di personaggi bianchi nei decenni passati. Per quanto queste inserzioni vengano criticate come innaturali e inverosimili, spesso sono invece statisticamente più realistiche di un cast al 99% bianco (al netto ovviamente dell’ambientazione).
In altri casi, ferme restando le buone intenzioni, si può effettivamente parlare di inclusivity forzata, sorte di quote artificiosamente assegnate in sede di produzione. Un esempio particolarmente spinoso è quello di personaggi che in un adattamento cambiano etnia rispetto all’opera originale: se ormai nessuno difende il whitewashing (si veda Scarlett Johansson nei panni di una donna originariamente asiatica in Ghost in the shell), più ambiguo è il caso inverso del blackwashing.
Va preliminarmente chiarito che whitewashing e blackwashing non si equivalgono – o meglio, il meccanismo astratto è lo stesso (cambiare l’etnia di un personaggio), ma noi non viviamo in un laboratorio asettico: il nostro contesto storico è fortemente asimmetrico, una delle due etnie è stata ed è discriminata, l’altra è privilegiata. Il whitewashing significa uniformare la rara rappresentazione di una minoranza allo standard dello status quo iconografico bianco, il blackwashing implica il processo inverso (senza togliere con ciò che possa essere fatto in modo criticabile e forzato).
Ma come capire se una critica di blackwashing è sinceramente motivata da una richiesta di fedeltà all’originale, o se cela una qualche pulsione razzista?
Un criterio potrebbe essere il seguente, ovviamente semplificando: la persona indignata avrebbe apprezzato il personaggio se fosse stato nero sin dall’opera originale? Non so quanti di quelli che hanno criticato il colorito di Disa e Arondir nella serie Rings of Power avrebbero visto di buon occhio una nana o un elfo neri nei libri di Tolkien.
Chiaramente il criterio di fedeltà non è necessario né sufficiente a valutare un adattamento: occorre dunque identificare innanzitutto i casi in cui la fedeltà può essere sensatamente usata come metro di giudizio.
Nella prossima serie su Percy Jackson (2024), i coprotagonisti Annabeth e Grover saranno interpretati da due attori di origine rispettivamente afroamericana e indiana: si può argomentare che ad aver scosso molti fan sia stata l’infedeltà ai libri e non la loro etnia in sé, tanto più che nelle opere originali Riordan è stato notevolmente inclusivo verso etnie, religioni, sessualità e disabilità. Il punto è che la serie TV era stata promossa come un “fare giustizia” alla saga dopo i film del 2010-13, affossati dallo stesso Riordan per quanto si erano distanziati dai libri. In sostanza, chi chiede un’Annabeth più caucasica può non farlo per razzismo (anzi, nei film era anche troppo bianca rispetto ai libri).
In altri casi la pretesa di fedeltà è fuori luogo: quando fu annunciato nel 2015 La maledizione dell’erede, il sequel teatrale di Harry Potter, piovvero lamentele perché Hermione Granger era interpretata da Noma Dumezweni, bravissima ma afrobritannica.
Lamentele insensate perché, se già nei film alla fine conta più il personaggio interiore che l’estetica, questo è maggiormente vero a teatro.

J. K. Rowling però non giustificò così l’innovazione rispetto all’originale, preferendo inventarsi una finta fedeltà: twittò che “la pelle bianca non è mai stata specificata” nei libri a proposito di Hermione, venendo subito smentita da un brano del Prigioniero di Azkaban. Curiosamente, oggi l’autrice è attaccata da sinistra per le sue posizioni transfobiche ed è di conseguenza difesa da Salvini o persino Putin (suo malgrado); nel 2015 invece Rowling veniva criticata da destra come politicamente corretta, per via di modifiche al canone di Harry Potter come questa o l’omosessualità di Silente, rivelata ex post.
In sostanza, la risposta a “Si tratta di blackwashing?” è “dipende”: il satiro Grover, oppure Peter Pan e Trilli (che non saranno bianchi nel live-action Peter Pan & Wendy) hanno una natura elfico-faunesca che poco giustifica le pretese di realismo fisionomico. Sono anche più assurde le argomentazioni di chi non vuole una Ariel nera ne La Sirenetta di quest’anno: vivendo nelle profondità del mare, non potrebbe sviluppare melanina, dettaglio scientifico su cui non si può proprio soprassedere in un film di sirene, magie e granchi parlanti.

Tanto più che, se fossero davvero interessati al canone, costoro dovrebbero riconoscere che nel 1993 è stata introdotta nella serie animata la sirena ispanica Gabriella, così come dal 2008 nei film di Trilli c’è la fatina nera Iridessa.
È poi possibile che tramite le fanart alcune reinterpretazioni vadano oltre la semplice sperimentazione racebending (inversione di etnia), cristallizzandosi nella coscienza collettiva come headcanon, ossia non ufficialmente canoniche ma affermatesi come tali: è accaduto con Hermione, sembra stia accadendo con Percy Jackson.
Certo, ci sono fiabe più radicate al loro contesto europeo medievale: sarà difficile giustificare principessa latina e regina mediorientale nel Biancaneve del 2024, mentre per La Sirenetta basta non ambientarla in Danimarca. Per il resto, occorre però notare che finora il supposto blackwashing sta riguardando perlopiù personaggi non umani, come la Fata Turchina di Pinocchio (2022) e la Fata Madrina di Cenerentola (2021), che ha anche una protagonista latina e a Salvini non piacque.
E ancora, c’è differenza fra i più recenti live-action Disney (che, dopo gli esperimenti di Alice in Wonderland e Maleficent, hanno iniziato a prefiggersi lo scopo di una certa fedeltà) e prodotti non-Disney che si prendono più libertà, come la Cenerentola del 2021 o la serie Once upon a time, con le sue Cenerentola e Grimilde latine.
Questa complessità, questo “dipende”, non verrà mai affrontata se si butta tutto nello stesso calderone di una cancel culture esistente ma largamente gonfiata (come nel caso di Jessica Rabbit due anni fa).
In conclusione, citiamo il disclaimer della Looney Tunes Golden Collection (2003-08), uno di quelli a cui vengono attribuite funzioni censorie e di cancellazione : “[…] questi cartoni vengono mostrati come sono stati creati in origine, perché fare altrimenti equivarrebbe a sostenere che questi pregiudizi non siano mai esistiti”. L’opposto della cancel culture, no?
Credits immagine di copertina: @gueligldv