Il termine giapponese hikikomori, che letteralmente significa “ritirati sociali”, è entrato a far parte del nostro vocabolario per indicare un fenomeno di isolamento e ansia sociale sempre più diffuso tra giovani e giovanissimi, che sembrano perdere progressivamente il desiderio di uscire dalle proprie stanze e avere a che fare con la realtà esterna.
In tempi recenti è stato condotto un primo studio su base nazionale, nato dalla collaborazione tra il Cnr e il Gruppo Abele, che rivela un numero allarmante di ragazzi e ragazze tra i 15 e i 19 anni (l’età più critica corrisponde i primi anni delle scuole superiori) sempre meno in grado di interagire con gli altri se non attraverso uno schermo.
Secondo un articolo pubblicato della Fondazione Veronesi che riporta i risultati dello studio, si parla di giovani che trascorrono mesi senza mettere piede fuori casa.
Nei casi più gravi si arriva a oltre sei mesi di “ritiro sociale” e all’assunzione di psicofarmaci anche senza prescrizione medica. Tra i ragazzi l’attività prediletta sono i videogiochi online, mentre le ragazze preferiscono i libri, le serie tv e sono più propense a soffrire di sonnolenza.
Inevitabilmente viene da chiedersi se gli anni di lockdown abbiano contribuito a debilitare le cosiddette social skills di una giovane generazione. In realtà, la risposta non è così scontata poiché questo fenomeno esiste da ben prima dello scoppio della pandemia: il Covid e i suoi strascichi non sono tra le cause principali. E sorprendentemente, non lo è neanche il bullismo. Infatti secondo Leopoldo Grosso, psicologo-psicoterapeuta e presidente onorario gruppo Abele, «Fra le cause dell’isolamento assume un peso determinante il senso di inadeguatezza rispetto ai compagni, caratterizzata da frustrazione e auto-svalutazione. Spesso i ragazzi si sentono immeritevoli e non all’altezza per via delle sembianze del loro corpo, per il proprio carattere, per la propria timidezza, per il proprio comportamento o per il loro modo di vestirsi. A questi elementi attribuiscono la causa della mancata accettazione che, quando diventa troppo insopportabile, culmina con il ritiro sociale».
Sebbene una minima percentuale di hikikomori sia consapevole di esserlo, la maggior parte forse non ha neanche preso coscienza della propria condizione. A volte, sfortunatamente, anche gli adulti sembrano essere altrettanto ciechi o poco interessati a intervenire. In ogni caso, avere la consapevolezza non vuol certo dire essere disposti a chiedere aiuto e nemmeno volersi far aiutare dagli specialisti. Secondo Marco Crepaldi, psicologo e fondatore dell’associazione Hikikomori Italia, «Solitamente, i ragazzi Hikikomori sono molto restii a farsi aiutare. Le richieste, infatti, provengono principalmente dai genitori ai quali consigliamo di creare un legame positivo, un’alleanza genitore-figlio, fondamentale perché il ragazzo accetti di farsi aiutare».
La soluzione è quindi affidarsi a dei professionisti per iniziare un percorso di supporto psicologico che possa aiutare ragazzi e ragazze a reintegrarsi nella società e ad aprirsi, man mano, al mondo esterno.
In termini un po’ riduttivi si potrebbe dire che il fine ultimo è quello di riacquistare uno stile di vita più sano e meno sedentario e riprendere in mano la propria vita sociale nel migliore dei modi.
Immagine di copertina: Foto: ADV Films