Del: 9 Marzo 2023 Di: Clara Molinari Commenti: 0
Mare fuori. Intervista al regista Carmine Elia

«Nun te preoccupa’ guaglio’, ce sta o’ mar’ for».  È intorno a queste parole che prende vita Mare Fuori, serie televisiva italiana distribuita dal 2020. Proprio a partire dal mare, infatti, e dalla sua silenziosa ma costante presenza, Carmine Elia, regista della prima stagione della serie, ha dato forma e immagine a una storia, la storia di giovani ragazzi e ragazze che vivono dietro le sbarre dell’IPM di Napoli, liberamente ispirato al carcere minorile di Nisida.

E così, attraverso lo sguardo cauto ma diretto della telecamera, Mare Fuori accoglie lo spettatore all’interno di una comunità, dentro alla quale finiscono per ricrearsi tutte quelle dinamiche e contraddizioni che si trovano anche all’esterno, al di là delle sbarre: nella nostra società. Abbiamo incontrato Carmine Elia per farci raccontare quello che ha voluto comunicarci tramite le immagini di Mare Fuori

L’intervista è stata editata per motivi di brevità e chiarezza.


Una volta entrati all’IPM i ragazzi e le ragazze detenute non possono più vedere il mare, eppure, nonostante tutto, sanno che si trova ancora là fuori, pronto ad offrire loro il suo conforto anche nei momenti più bui e dolorosi. Che significato ha allora questo “mare fuori”?

Il mare rappresenta la libertà, o meglio, una libertà repressa, negata. I ragazzi dell’IPM sanno che al di là dalle sbarre che li separano dall’esterno c’è il mare, eppure non possono usufruirne a piacimento, non possono goderne liberamente. E proprio per questo abbiamo scelto di raccontare la realtà del carcere minorile di Napoli, circondato dal mare, e non di altre città: per trasmettere la sensazione di una libertà che appare vicina, ma che è al tempo stesso irraggiungibile. Il mare diventa poi anche un elemento formativo, di crescita: tra le attività ricreative proposte ai ragazzi infatti vi è anche quella della barca a vela e questa per alcuni si trasforma in un hobby, per altri potrebbe persino diventare un lavoro.

Il regista Carmine Elia

I ragazzi dell’IPM hanno alle spalle storie diverse, ognuna dolorosa a modo suo, ma soprattutto legata in modo inestricabile a un determinato contesto sociale. Che significato ha mostrare all’interno della serie queste storie, le vicende di ragazzi tanto diversi, ma allo stesso tempo tanto simili nella loro fragilità?  

L’idea era quella di raccontare come i giovani non nascano cattivi, nemmeno se vengono alla luce in un contesto in cui la malavita è sovrana. Sicuramente il luogo fa, incide sulla crescita e sulla formazione dei ragazzi, ma comunque sono gli adulti che definiscono quel luogo e che sono lo specchio della realtà con cui i ragazzi si interfacciano ogni giorno. Ebbene, in Mare Fuori ho cercato di raccontare come i giovani in molti casi si trovino a delinquere perché il solo esempio che hanno di fronte è quello di adulti pessimi, incapaci di offrirgli una rappresentazione realistica della realtà. 

La direttrice, il comandante e gli educatori dell’IPM perseguono con tenacia un obbiettivo: salvare i ragazzi dai propri errori offrendogli l’occasione di darsi una nuova possibilità, imboccando un’altra strada, diversa da quella della criminalità. Eppure, nella maggior parte dei casi, una volta fuori i ragazzi si comportano esattamente come prima di entrare all’IPM, riassorbiti nel marasma sociale da cui il carcere li aveva solo momentaneamente allontanati. Cosa vuole comunicarci la serie mostrandoci questa contraddizione insita nello scopo rieducativo dell’IPM? 

La serie vuole far luce su quei vuoti dello Stato che vengono riempiti dalla malavita: laddove c’è un vuoto istituzionale, infatti, la delinquenza riesce a entrare a gamba tesa e a farsi incoronare sovrana. Ed è proprio questo il vero fallimento dello Stato: non riuscire a sopperire a quei vuoti, tanto che, una volta usciti dall’IPM, i ragazzi si ritrovano sbattuti esattamente nello stesso ambiente dal quale erano stati strappati a forza. Quello che manca infatti è un percorso esterno, di guida, che possa in qualche modo orientare i ragazzi una volta usciti dal carcere. In teoria questo percorso c’è, ma solo in teoria. In pratica non ancora. 

All’interno dell’IPM di Napoli c’è anche un ragazzo milanese, Filippo, che si trova catapultato in una realtà del tutto inimmaginabile per chi ha vissuto soltanto nella bambagia della sua “Milano bene”. E così Filippo inizialmente grida a tutti di non avere nulla a che fare con i “delinquenti” con cui si trova costretto a dividere la cella. Quella che gli arriva dalla direttrice però è una risposta inattesa, spiazzante: non spetta a lui dare giudizi e forse sono proprio quelli che lui chiama criminali a potergli insegnare qualcosa. Davvero Filippo può imparare qualcosa da loro? Ma, soprattutto, è giusto che si trovi obbligato a imparare da loro?

Un grande problema che emerge dalle vicende dei ragazzi di Mare Fuori è quello della magistratura, dei cosiddetti “tutori della giustizia”: quando questi infatti si limitano ad applicare in modo asettico un insieme di regole, allora il rischio è quello che non si rendano conto di chi sia la persona che hanno di fronte e che gli impartiscano una pena assolutamente inadeguata per un suo percorso di rieducazione e reinserimento all’interno della società. Così accade proprio con Filippo, per cui le istituzioni decidono che debba essere chiuso all’IPM di Napoli: in questo caso le istituzioni non hanno saputo “leggere” il ragazzo e capire che per lui, considerato il suo contesto di provenienza, sarebbe stato più adatto un tipo di riabilitazione diverso, o comunque affrontato all’interno di un contesto sociale più vicino a quello in cui aveva sempre vissuto. 

Nicolas Maupas nei panni di Filippo

La direttrice dell’IPM, dicendo a Filippo che sarà lui a poter imparare qualcosa da quelli che chiama criminali, cerca di sradicarlo dall’ambiente da cui proviene, credendo così di poterlo migliorare e di renderlo in qualche modo una persona più matura. Sbaglia però concettualmente, perché comunque Filippo si ritrova imprigionato in un contesto lontano anni luce da quello in cui aveva vissuto fino a quel momento, ma soprattutto si ritrova costretto a scendere a compromessi con un mondo dominato dalla delinquenza, dalla violenza e dagli orrori di una logica di reciproca sopraffazione. 

Amore e amicizia sono i due sentimenti cardine che fanno da contrappeso al dolore e alla rabbia con cui i ragazzi sono costretti a confrontarsi ogni giorno. Inoltre, più la sofferenza è intensa e più i sentimenti di amore e amicizia sono vissuti con forza e profondità. Possiamo allora, noi che siamo liberi, imparare qualcosa in tema di emozioni da questi ragazzi? 

Certamente. Possiamo imparare da loro perché, a differenza nostra, questi ragazzi sono “costretti” a interagire tra loro e, di conseguenza, a condividere le proprie emozioni e ad accogliere quelle degli altri. Questo è ciò che li distingue da noi che invece siamo liberi: il fatto di essere obbligati a relazionarsi in via diretta, senza la protezione di uno schermo, soltanto attraverso la propria presenza e il contatto fisico, che si tratti di un abbraccio, di un bacio, o anche solo di un saluto. 

La musica, le attività ricreative e la poesia racchiudono in sé una bellezza che a molti ragazzi dà la forza di sperare nella possibilità di un cambiamento. Spesso però questi ragazzi sono nati in contesti in cui non hanno nemmeno avuto la possibilità di conoscerlo, il bello. Quanto può essere difficile in questi casi accogliere, e soprattutto comprendere, la bellezza? 

In realtà è proprio chi ha conosciuto il brutto ad apprezzare maggiormente il bello; chi è invece circondato sempre e solo dalla bellezza finisce spesso per non darle troppa importanza. Credo quindi che chi vive in un certo tipo di mondo dovrebbe conoscere anche la bruttezza, “sporcarsi”: è proprio questo infatti che permette di avere maggior consapevolezza del bello e delle persone che lo creano. 

È stato difficile riprodurre questo “sporco”, il tema della “strada”, e far sì che questa venisse interiorizzata dai personaggi e raccontata per immagini? 

Non ho sentito questa grossa difficoltà nel raccontare il pruriginoso; ho trovato più difficoltà nel raccontare il positivo, la luce. Il male ha sicuramente più fascino rispetto al bene, ma quello che abbiamo voluto mettere in scena è esattamente il contrario: in Mare Fuori non c’è un’agiografia del camorrista e anzi questa viene proprio scardinata, vengono mostrate tutte le contraddizioni insite in quel tipo di sistema. Prendiamo la scena in cui Ciro uccide l’amico: in quel caso ho scelto di mostrare la sua paura, la sua mano che trema mentre impugna la pistola. E così anche alla fine, quando viene ferito a morte, ho voluto raccontare come la paura lo riporti ad essere quello che è, soltanto un ragazzo. E soprattutto un ragazzo che non sa nemmeno che cosa sia tutta quella guapperia che racconta, in primis a se stesso.

Dirigere un’opera televisiva significa elaborare un racconto per immagini. Qual è la storia e le sensazioni che voleva trasmettere visivamente?

Attraverso le immagini volevo raccontare come i ragazzi siano sempre separati da un qualcosa che è esterno rispetto alla libertà di cui dispongono all’interno del carcere. Ho sempre cercato di mettere un diaframma in modo tale che i ragazzi si sentissero come galline in un pollaio. E anche gli stessi agenti della penitenziaria dovevano percepire questa separazione con l’esterno, così da trasmettere l’idea che anche loro possono godere soltanto di una libertà chiusa, limitata. 

Clara Molinari
Studentessa di giurisprudenza, scrivo per dare ascolto ai miei pensieri e farli dialogare con l’esterno. Cinema e lettura sono le mie fonti di emozioni e conoscenza; la curiosità è ciò che lega il tutto.

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