Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.
In una Milano a pochi giorni dalla liberazione, un contrabbandiere e una ballerina decidono di mettere le mani sull’oro di Mussolini, che un gerarca in fuga sta portando con sé in Svizzera. È la trama del film Rapiniamo il duce (2022), ma non serve rifugiarsi nell’ucronia fantastorica: l’oro di Mussolini è esistito davvero.
La vicenda giudiziaria del cosiddetto “oro di Dongo” (dal luogo nel comasco dove Mussolini venne arrestato) scosse l’Italia a partire dal 1947-49, nel periodo in cui il PCI veniva escluso dalla compagine di governo e, col De Gasperi IV, si delineavano i blocchi della Guerra Fredda anche da noi. Bisogna però fare qualche passo indietro, per capire che cosa sia successo.
Il 25 aprile 1945 venne liberata Milano; due giorni dopo, sul lago di Como, alcune formazioni partigiane fermarono un convoglio tedesco proveniente da Musso.
L’autocarro fu portato nella piazza della vicina Dongo ed è lì che, nonostante il tentato travestimento, venne riconosciuto Benito Mussolini – destino prevedibile di molti capi autoritari che prima si fanno effigiare in lungo e in largo e poi provano a passare inosservati, a partire da Luigi XVI.
A ispezionare il convoglio fu una delle formazioni partigiane comuniste, la 52a Brigata Garibaldi intitolata a Luigi Clerici, nello specifico il distaccamento Puecher.
In questa sede venne rinvenuta la prima parte del “tesoro”: una borsa, sequestrata dal vicecommissario di brigata Bill (al secolo Urbano Lazzaro), che conteneva forse un carteggio con Churchill (ma questa è un’altra storia), così come assegni e sterline per un valore di oltre un milione di euro odierni. Altri soldi, oro e i gioielli di Claretta Petacci vennero trovati dal Capitano Neri (Luigi Canali) della stessa brigata nei bagagli di altri ministri e prefetti.
L’indomani 28 aprile, giorno in cui Mussolini e Petacci furono fucilati poco più a sud, la partigiana Gianna (Giuseppina Tuissi, compagna del Capitano Neri) inventariò tutto il bottino, ma il documento scomparve: ciò che sappiamo deriva da testimonianze giudiziarie del 1946-47.
Il Capitano Neri stabilì che l’oro di Dongo venisse depositato temporaneamente presso la federazione comasca del PCI, nella persona del segretario Dante Gorreri.
Nel frattempo, una seconda parte del tesoro viaggiava ancora sull’autocarro ripartito da Dongo:
cinque valigie piene di banconote, fedi nuziali offerte in sostegno della Guerra in Etiopia, oro sequestrato agli ebrei deportati.
La notte del 27 i militari tedeschi gettarono quasi tutto nel lago, vicino al fiume immissario Mera. Questa seconda parte dell’oro di Dongo, trovata il giorno dopo da un pescatore, venne consegnata anch’essa alla 52a Brigata Garibaldi. Il vicecommissario Bill la depositò in banca.
Pochi giorni dopo, a maggio, la somma venne però ritirata e affidata al commissario Moretti della stessa brigata: l’ordine era di consegnarla al CVL di Milano, che coordinava militarmente la Resistenza, ma da lì in poi non se ne hanno più tracce.
Anche la prima parte del tesoro navigava in acque poco chiare: sempre a maggio il Capitano Neri scomparve, senza essere più ritrovato; il mese seguente scomparve anche Gianna, gettata probabilmente nelle acque del lago presso Cernobbio.
Una prima indagine si ebbe già nel 1945, da parte del Tribunale Militare: riguardo la seconda parte del tesoro venne inizialmente incriminato Moretti, che si rifugiò a Lubiana; nel 1947 venne però assolto, perché Vergani (comandante delle Brigate Garibaldi lombarde) confermò che quel denaro era rimasto ai partigiani e che in parte era stato devoluto in beneficienza. Intanto era accaduto molto: i governi Bonomi e Parri, sotto i quali si erano svolti gli avvenimenti di Dongo, avevano lasciato il passo a De Gasperi e al referendum del 2 giugno 1946. L’Italia non era più una monarchia, ma una repubblica: a quattro giorni dalla sua proclamazione, la controversa amnistia Togliatti condonava diversi crimini fino al collaborazionismo, con l’obiettivo di oltrepassare il periodo della guerra civile.
In questo clima, chi metteva in dubbio la sorte del tesoro di Mussolini veniva spesso tacciato di neofascismo, ma d’altro canto spesso tali illazioni venivano mosse proprio con intenti politici:
nella primavera del 1947, l’organizzazione paramilitare di ex-partigiani comunisti Volante Rossa commise e rivendicò l’omicidio del giornalista Franco De Agazio, reo non solo di una passata militanza repubblichina ma anche di aver indagato sull’oro di Dongo sul Meridiano d’Italia, vicino al MSI.
Quella stessa primavera vide la “crisi di maggio”, che sotto forti pressioni statunitensi portò alla formazione del primo governo senza il PCI di Togliatti; un anno dopo, la polarizzata campagna elettorale del 1948 portò a una maggioranza assoluta della DC nella prima legislatura del Parlamento italiano.
Nel 1949 la Corte d’Appello di Milano rinviò a giudizio Gorreri e Vergani, ritenuti mandanti degli omicidi del Capitano Neri e di Gianna, insieme ad altri sospetti complici ed esecutori. Gorreri restò in carcere fino al 1953 quando, eletto deputato col PCI, fu liberato in virtù dell’immunità parlamentare; nel suo La pista inglese (2002) Luciano Garibaldi estende questa protezione anche a Vergani, che però sarebbe stato eletto senatore soltanto nel 1958.
Nel frattempo era passato quasi un decennio: con la caduta del primo governo Segni nel 1957 l’era del centrismo andava finendo, anche a seguito del rapporto di Khruščëv su Stalin e dei carri armati a Budapest dell’anno prima, che stavano riavvicinando il PSI di Nenni alla DC, allontanandolo dal PCI.
Proprio nel 1957 la Corte d’Assise di Padova riaprì il processo sui fatti dell’oro di Dongo:
furono chiamati a testimoniare Enrico Mattei (ex-partigiano democristiano con incarichi generali, da poco fondatore dell’ENI) e Luigi Longo (ex-pezzo grosso del CVL, futuro segretario del PCI). Entrambi difesero la liceità della consegna dell’oro alle Brigate Garibaldi come «bottino […] di guerra» e «prede belliche», ma questo corrispondeva a verità solo per la seconda parte del tesoro (quella ripescata dal lago): la prima era stata destinata dal Capitano Neri al PCI, nonostante Longo negasse che alcunché fosse arrivato al partito.
Dopo pochi mesi il processo però si interruppe: uno dei giurati fu ricoverato e, come riportava L’Unità, quell’agosto si suicidò in ospedale. L’iter giudiziario subì un rinvio che divenne permanente, quando scattò la prescrizione: era passato troppo tempo dagli eventuali reati, così gli imputati vennero tutti prosciolti.
Secondo quanto scrive Massimo Caprara (segretario di Togliatti dai tempi della Resistenza) sia nel libro di Garibaldi sia nel suo Quando le Botteghe erano Oscure (1997), la prima parte dell’oro di Dongo fu effettivamente consegnata al PCI comasco di Gorreri: il partito l’avrebbe depositata su dei conti svizzeri, usandola poi per sostenere il quotidiano L’Unità e per acquistare un palazzo in Via delle Botteghe Oscure a Roma, storica sede del PCI. L’edificio, costato a Togliatti 30 milioni di lire, è oggi in procinto di diventare un hotel di lusso, dirimpettaio ironicamente del sindacato di destra UGL e della Lega.
Non riceve dunque una vera risposta l’indagine sull’oro di Dongo, anche e soprattutto per i colori politici di cui si tinse la discussione a ridosso dei fatti:
nel 1949 uscì su Life un articolo degli statunitensi E. L. Palmieri e J. Kobler, che stimava il “Dongo treasure” a oltre 66 milioni di dollari, confluiti nel palazzo romano ma anche nelle campagne elettorali del 1946-48.
Se Palmieri era un giudice, Kobler era stato membro dell’OSS, il precursore della CIA: persona dunque potenzialmente più informata di altre, ma anche fonte non del tutto neutrale.
Una buona rappresentazione della ricezione che ricevettero i fatti di Dongo, ancora nello svolgersi del processo giudiziario, è quella fornita dalla raccolta Mondo Piccolo (1948) di un autore cattolico come Guareschi: nel racconto Il tesoro, don Camillo intuisce che il sindaco comunista Peppone stia usando i soldi trafugati da un camion fascista per costruire un edificio. Nell’adattamento cinematografico Don Camillo (1952), Peppone si trincera dietro un “Sempre le solite, voi cercate di disonorarci!”, ma il prete ribatte semplicemente “Non urlare, che ti può scoppiare una vena”.