Immaginare la terza età è un gioco caricaturale strambo ma divertente: gli anni ci ricalcheranno le spigolature del carattere, oppure è vero che la vecchiaia, specie nella variante con nipotini, migliora? Saremo incassati in poltrona a snocciolare cruciverba, ai giardini con un quadrupede di piccola taglia al guinzaglio, o iscritti come fanatici a ogni singola gara di podismo provincialotto? Sempre che ci si arrivi, alla categoria over-settanta – ma chi ha visto in faccia la precarietà sa anche che, seppure certe premesse siano implicite, è bene scontare gli ignoti rimasugli di tempo con ottimismo (mal che vada si sarà vissuto meglio).
Quanto all’età dello spirito, è un altro discorso. Ci sono anime antiche, che sembrano aver esplorato ogni meandro della reincarnazione, e per quanto portino con sé la stanchezza del mondo sono di una gioventù senza tempo. Altre, forse meno evolute o chissà, scelgono di sopravvivere in un continuum di torpore esistenziale, scontente a priori per paura di scontentarsi, guardando di tanto in tanto indietro a quel che stona nel grigiore.
È una categoria di anime a cui Svevo, pensando alla copertina del suo secondo romanzo, ha dato il nome di Senilità.
A dire il vero, il titolo iniziale doveva essere Il carnevale di Emilio, con un richiamo alla tradizione carnevalesca dal medioevo fin qui: il carnevale come spazio delimitato di annullamento gerarchico, capovolgimento temporaneo dell’ineguaglianza sociale per consacrarne l’immobilità. Allo stesso modo, l’avventura del mediocre piccolo-borghese Emilio Brentani con la popolana Angiolina è una parentesi di brio che non mina il suo restare in vita senza mai sentirsi protagonista attivo.
È tipico di Italo Svevo, da buon classico della letteratura italiana e quindi inserito nel programma ministeriale, materializzarsi nell’elenco di tomi da digerire in vista dell’esame di maturità. Di solito ci fanno leggere La coscienza di Zeno, che ai diciottenni si addice abbastanza. Per quanto non sia un bildungsroman, agli adolescenti piace ritrovarsi nello schiaffo ricevuto dal padre, nel senso di inettitudine appiccicato addosso al protagonista, nell’acronimo “U.S.” che sta per un’aspirante ultima sigaretta, di fatto eterna penultima, come tutte le marinate e le falsificazioni delle firme genitoriali che si fanno a quell’età.
Senilità lo si legge meno, quasi che il destino di questo romanzo fosse rimanere adombrato dalla statura di un fratello maggiore. Eppure Eugenio Montale, che quando non scriveva di bufere e altro faceva il critico letterario, lo recensì con lode, definendolo il più sveviano dei libri di Svevo. Fu proprio il poeta, peraltro, uno dei pochi a cogliere fin da subito il potenziale della sua prosa, che negli anni a ridosso della pubblicazione non ebbe molto successo.
Addentrandosi nel fitto della trama, che ridotta al minimo è una geometria perfetta di liaisons a quattro, gli appassionati di amori tormentati si troveranno sicuro a loro agio. Se a proposito di relazioni pericolose si è letto Choderlos de Laclos e magari anche Le affinità elettive, allora si amerà l’opera sveviana, forse di più. Con una differenza rispetto a Goethe e altri: la morbosità, soprattutto nel legame tra Emilio e la sorella, a cui l’autore spalanca lo spazio narrativo senza paura del torbido. Il torbido non inquina il quadrato del sistema di personaggi: è l’essenza stessa della loro ontologia relazionale. Dal costante bisogno di Emilio idealizzare un rapporto carnale, fino al delirio dell’utopia socialista, alla malattia di Amalia, che non ha mai vissuto l’amore se non da spettatrice e oscilla tra la passione per il Balli e un ambiguo rapporto con suo fratello.
Svevo scrive con un linguaggio greggio, che di primo acchito fa sospettare qualche refuso nell’edizione cartacea. Le sbavature sono invece una peculiarità: Italo Svevo altro non è che uno pseudonimo per Aaron Hector Schmitz, triestino di discendenza mitteleuropea, e la voce narrante, che interviene facendo ironia sul modo in cui Emilio racconta se stesso, padroneggia l’italiano ma non da madrelingua. Questo idioma che incespica sulle preposizioni non è piaciuto a molti critici, e può pure non garbare ai lettori. Ma la riconoscibilità, in ambito artistico, è già di per sé un valore.
In conclusione, al di là di riferimenti letterari e minuzie care agli impavidi devoti che non hanno tradito la più sublime delle materie scolastiche con altre facoltà, Svevo merita tutte le sue otto ore di ascolto (in formato audiolibro Senilità si apprezza ancora di più). E leggere i classici è un comandamento che si potrebbe aggiungere in calce al decalogo.
Anzi, forse nel 2023 bisognerebbe non leggerli, perché poi è davvero difficile passeggiare tra le novità in libreria e non chiamarle schifezze: sproloqui sulle imperfezioni individuali che, oltre che essere mainstream, banali e ripetitivi, sono pure il risvolto di un ipertrofismo dell’ego. Io di qua, io di là, incapace, fragile, debole ma intanto io, io e ancora io, che parlo di me stesso al mio riflesso nella fotocamera. Di incapacità a vivere Svevo ha già scritto nei suoi romanzi, in un modo che a tratti diverte, a tratti mette malinconia, qualche volta fa venire il nervoso perché nell’accidia dei personaggi riviviamo la pesantezza dell’aria di casa, una parte di noi che ci affligge. Senza che il libro implori la nostra compassione con spataffiate strappalacrime. I classici servono scene di vita crude, né belle né brutte ma originali (almeno così direbbe il signor Schmitz), e si fa esperienza anche leggendo. I classici bastano, e sono un po’ come le colonne d’Ercole del nostro sapere sull’inferno dei viventi: oltre non si riesce a navigare più di tanto.
Tante volte viene da pensare che, per l’aria che tira sul pianeta, l’apocalisse sia questo nostro presente eterno, una fine della storia in cui accadono gli orrori ma anche la loro novità viene fagocitata dalla noiosa stasi del quotidiano. Vanitas vanitatum. Pure la letteratura, forse, è giunta alla fine: prima della carestia contenutistica e lessicale è stato già detto tutto, e in modo migliore. Come se la cornucopia di immagini a cui lo scrivere attinge avesse riversato anche l’ultimo dei suoi doni, e a noi sopravvissuti del postmoderno restasse solo il nostalgico e reliquiario piacere della lettura.