Del: 6 Aprile 2023 Di: Redazione Commenti: 0
Il linguaggio discriminatorio con cui si parla delle donne

Kamala, Greta, Angela, la Von der Leyen. Sono sulla bocca di tutti, si sentono spesso i loro nomi. Mario, Joe, il Mattarella, Emmanuel. Non suonano così familiari, vero? Forse è perché siamo più abituati a parlare di Draghi, Biden, Mattarella e Macron. A quanto pare, c’è chi merita un cognome importante e chi no. Se è vero che le parole hanno un peso, è necessario analizzare il dibattito estremamente attuale sulla parità di genere anche da uno dei punti di vista più banali, eppure più trascurati: la grammatica, il lessico, i mattoncini alla base della struttura di un discorso.

Il linguaggio riservato alle donne ai giorni nostri è profondamente inappropriato.

Ci si arroga il diritto di chiamarle per nome; quando ci si ricorda del cognome l’articolo anteposto non manca mai, forse perché possa essere chiaro già dall’inizio che si parla di una donna, e quindi il giudizio possa essere già formulato con il criterio del sesso. I titoli di giornale raccontano dei successi di “una donna”, “una mamma”; si evidenzia il suo ruolo all’interno della famiglia, si fa cenno magari al suo aspetto fisico o al suo carattere, si descrivono i particolari del suo outfit, prima di ricordare come si chiama, cosa ha studiato e cosa ha conseguito.

Dove si devono ricercare le radici di questo problema? Siamo semplicemente “abituati così”, o si tratta di una conseguenza delle dinamiche della nostra società? Non è un segreto per nessuno che continui ad esistere un grande differenziale retributivo di genere: nel 2018 in Italia le donne guadagnavano in media il 6,2% in meno degli uomini, arrivando al 27,3% nella professione di dirigente, e ancora oggi il divario retributivo di genere nell’Unione Europe si attesta intorno al 13%.

Si fa poco per incoraggiare le donne in carriera, sia per quanto riguarda lo stipendio, sia dal punto di vista delle difficoltà logistiche che incontrano nel quotidiano. Basti pensare che gli asili nidi riescono ad accogliere a malapena 26 bambini ogni 100; in tali condizioni diventa arduo conciliare la famiglia e la carriera, viene richiesto troppo spesso di sacrificare il lavoro in nome del ruolo di madre, e una figura femminile ambiziosa e in posizione di potere diventa così rara che non si è in grado di parlare adeguatamente di lei e a lei.

Più di una donna denuncia di subire, in ambito scolastico o sul posto di lavoro, dei piccoli quanto frustranti attacchi lessicali.

Quando assume lo stesso atteggiamento che in un suo coetaneo uomo è considerato “autoritario”, lei è “arrogante”. Se non lascia che la interrompano quando parla, è “aggressiva”, non “decisa”. Se le capita di arrabbiarsi in pubblico e di avere una reazione forte, è “emotiva, come tutte le donne”, nel migliore dei casi, “isterica” nel peggiore, ma mai semplicemente “arrabbiata” o “in un momento di difficoltà” come i suoi colleghi.

Raramente una o più lauree, una vita di fatica e sacrifici, conquiste importanti le sono riconosciute; esiste una sgradevole maggioranza per cui “signorina” e “dottoressa” sono perfettamente intercambiabili, anzi, nell’uso comune il primo è in netto vantaggio sul secondo. Succede quotidianamente a donne di tutte le età di subire questo tipo di discriminazioni: fin dall’adolescenza siamo invitate a “non fare le maestrine”, a stare zitte, o almeno ad “abbassare i toni”, quando stiamo solo parlando al giusto volume per non venire ignorate.

Ogni ragazza che cresce è costretta ad affrontare il momento doloroso e sconfortante in cui prende coscienza del fatto che di lei raramente si parlerà come dei suoi coetanei maschi. E se proverà a far notare che un riconoscimento del suo titolo spetta anche a lei, ad esempio cambiando la targa da Assessore ad Assessora, sarà “la solita esagerata, come se il problema fosse una vocale, deve proprio protestare inutilmente”.

Non è difficile, per chi ha sempre dato il proprio cognome e il proprio titolo per scontato, definire sterile la polemica che diverse donne sollevano in merito al linguaggio che si usa per definirle e per parlare di loro.

“Sì, e allora io mi farò chiamare guardio al posto di guardia”, scherzano certi uomini in risposta alla rivendicazione di una versione femminile di ogni titolo conquistato. “Perdono tempo con queste stupidaggini anziché occuparsi dei veri problemi delle donne”: un’altra acuta obiezione proveniente da chi guarda al mondo attraverso la lente del sessismo.

Si potrebbero dare svariate risposte a queste rimostranze. La prima riguarda il bisogno di parole: di solito si avverte la necessità di qualcosa solo quando si è privi di essa, perciò non c’è da stupirsi se il desiderio di rivendicare i propri titoli sia sentito in maggioranza dalla popolazione femminile.

La rivoluzione parte anche dal piccolo, dalla conquista di una targa, dal nome della propria carica; sembra paradossale, ma è parte della storia femminile l’aver dovuto lottare per poter essere chiamate “dottoressa”, ed è una triste costante della società odierna la battaglia contro un vocabolario troppo spesso maschilista. Non significa focalizzarsi su dettagli insignificanti trascurando altri temi; significa portare avanti un’istanza che non deve essere messa da parte, non deve essere relegata nell’angolo di ciò che si affronterà in un indeterminato “prima o poi”, ma deve essere tenuta presente, deve essere fatta notare continuamente finché non verrà presa in considerazione come merita.

La narrazione delle donne e delle loro vite va innegabilmente riscritta, anche con una certa urgenza.

Si potrebbe poi portare alla luce un’altra questione, più sottile eppure egualmente sentita da chi ne è vittima: l’abitudine che le maggioranze hanno di parlare per le categorie in svantaggio, di mettersi sulla difensiva, in una posizione di prevaricazione e non di ascolto. “Che io ti chiami per nome o per cognome non fa differenza”, dice un uomo (normalmente chiamato per Titolo e Cognome) a una donna abituata a sentirsi chiamare “signorina”, “tesoro”, o con il suo nome proprio in ambiti in cui ai colleghi non capiterebbe mai.

Fa differenza, invece; è esasperante che chi non soffre per una discriminazione si arroghi il diritto di poter dire a chi la subisce se e come soffrire. È necessario portare finalmente alla luce una prospettiva che dovrebbe essere la protagonista del dibattito, ma che troppo spesso è oscurata da chi non è disposto a mettersi in discussione.

Vorremmo parlare in prima persona, e vorremmo farlo essendo ascoltate senza alcuna condiscendenza. Vorremmo rivendicare il nostro titolo e vederci riconosciuto ciò per cui abbiamo lavorato, senza che venga invalidato dall’ennesimo, frustrante “tesoro”.

Articolo di Maria Cattano

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