Del: 22 Aprile 2023 Di: Martina Vercoli Commenti: 0

Era il 1965, quando una giovane donna siciliana di Alcamo, proveniente da una famiglia modesta, divenne nota in tutta Italia per un atto di estremo coraggio, che prima di allora nessuno aveva mai osato compiere pubblicamente. Stiamo parlando di Franca Viola e del momento in cui decise di ribellarsi all’umiliante articolo numero 544 del Codice civile italiano.

Dopo essere stata rapita e violentata per otto lunghi giorni da Filippo Melodia, nipote di un mafioso locale, Franca Viola si oppose al cosiddetto “matrimonio riparatore”, denunciando il suo carnefice con il sostegno della sua famiglia e gettando le basi per porre fine ad una pratica che, specchio di una discriminazione secolare della figura femminile nella società, costringeva le vittime a convivere (e dunque sposare) i loro violentatori, con il solo scopo di salvare l’onore e il nome della famiglia. Il reato di violenza carnale si estingueva dunque solo se lo stupratore sposava la vittima.

Con questa azione, Franca Viola decise di porre un freno a quella che di fatto era una vera e propria doppia violenza da parte del proprio stupratore prima e da parte dell’opinione pubblica dopo, accettando tutto ciò che ne sarebbe conseguito, tra cui anni di ricatti, minacce e profonda ostilità dell’opinione pubblica. Franca e i suoi genitori non dissero “no” solo a Melodia e alla sua famiglia, dissero no ad un sistema di rapporti basato sulla sopraffazione del maschio sulla femmina, a tutti i tabù che erano alla base di una società profondamente arcaica, ad una struttura che schiacciava le donne e la loro volontà.

Tanti anni di discussioni ci sono voluti prima che il suo gesto coraggioso producesse effetti e portasse finalmente all’abolizione, il 5 Agosto del 1981 (“solo” 42 anni fa), di un articolo che di fatto assolveva gli stupratori da ogni colpa: l’articolo 544 del Codice “Rocco”, prevedeva :

Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.

Innumerevoli donne furono costrette a portare il trauma e a vivere la loro esistenza in una sorta di gabbia, che per assurdo, era legalizzata. La legge, infatti, considerava la violenza sessuale parte dei “delitti contro la moralità pubblica”, tutelando non la persona che l’aveva subita, bensì colui che tanto brutalmente l’aveva compiuta. Lo stupro era in questo contesto considerato come qualcosa legato alla morale sociale, una lesione della moralità pubblica, dell’onore, della reputazione della famiglia, e non alla singola persona, alla donna, che non disponeva di alcuna libertà in campo sessuale. L’impronta fascista del Codice penale italiano aveva fatto sì che determinate norme di stampo patriarcale rimanessero e annullassero del tutto la volontà femminile.

Il matrimonio riparatore non era certamente l’unica pratica ad essere legalizzata. Vi era infatti anche il cosiddetto “delitto d’onore”, in cui la donna era ancora una volta considerata come une mera proprietà dell’uomo.

Nel delitto d’onore, un individuo che avesse sorpreso una donna della famiglia durante una relazione “disonorevole”, avrebbe avuto tutto il diritto di ucciderla senza essere punito.

Secondo il report fornito dal “fondo delle Nazioni Unite per la popolazione” (UNFPA), del 14 aprile 2021, questa pratica, che permette agli stupratori di evitare la condanna sposando la vittima, è definita “Marry your rapist law”. Ad oggi, è ancora presente in 20 nazioni nel mondo, tra le quali: Russia, Venezuela e Thailandia.

Sono invece ben 43 i paesi che non hanno leggi nel proprio ordinamento volte a criminalizzare lo stupro coniugale, dunque il “marital rape” non è considerato stupro. Il report in particolare ha lo scopo di analizzare la capacità delle donne di autodeterminarsi per quanto riguarda il sesso e la riproduzione. Secondo la direttrice esecutiva dell’UNFPA, Natalia Kanem, queste leggi “Sono profondamente sbagliate e sono un modo per soggiogare le donne”, aggiungendo che “La negazione dei diritti non può essere protetta dalla legge”.

Le leggi sul “matrimonio con il tuo stupratore” spostano il peso della colpa sulla vittima e cercano di rendere meno grave una situazione che è criminale. Cambiare queste leggi è estremamente difficile, si tratta di una pratica ormai consolidata e che a volte, per fattori sociali, culturali, conservatori, continua ad essere effettuata in paesi dove le leggi in merito sono state abrogate.

Difficile però, non significa impossibile. In Marocco ad esempio, la legge è stata abrogata nel 2014, a causa del caro prezzo pagato da una giovane donna di soli 16 anni: Amina El Filali, che, costretta a sposare il suo violentatore, ha deciso di togliersi la vita. Nel corso del 2017/2018, Giordania, Palestina, Libano e Tunisia hanno seguito le sue orme. Tuttavia, in Iraq ad esempio, un uomo può evitare qualsiasi accusa nei suoi confronti sposando la vittima, ma non se vi è un divorzio entro i primi tre anni. In Russia e Thailandia, il matrimonio riparatore è consentito solo se lo stupratore ha 18 anni e la sua vittima meno di 16. Infine, in Kuwait, uno stupratore è autorizzato a sposare legalmente la vittima con il permesso di un tutore. Il risultato è la permanenza di una pratica a dir poco aberrante e la negazione totale del diritto delle donne di decidere della propria vita e soprattutto, del loro corpo.

“È una violazione dei diritti fondamentali di donne e ragazze che rinforza le diseguaglianze e perpetua le violenze legate alle discriminazioni di genere” ha dichiarato sempre Kanem.

Martina Vercoli
Studentessa di Corporate Communication presso l’Università degli Studi di
Milano. Amo viaggiare, scrivere, bere cappuccini e parlare di progetti di mobilità Europea.

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