« Oggi all’alba, con una sola operazione, trasferiamo i primi 2000 pandilleros al centro de confinamiento del Terrorismo (CECOT). Questa sarà la loro nuova casa, dove vivranno per decenni, mischiati, senza poter più danneggiare la popolazione. Continuiamo … ».
Con questo messaggio, il 23 febbraio, il presidente salvadoregno Nayib Bukele annuncia l’inaugurazione della punta di diamante del suo programma di lotta contro la criminalità organizzata nel paese. A corredare il tweet un inquietante video che mostra quei 2000 detenuti saettare tra corridoi asettici, vestiti di soli boxer bianchi, sedersi a capo chino in interminabili file, un mare umano di schiene tatuate e teste rasate. Sono parte di un grande operazione avviata dal Presidente nel 2021, in cui sono state arrestate 64mila persone – di cui molti minori – sospettate di appartenere o simpatizzare per le organizzazioni criminali.
Organizzazioni che il Ministro della Giustizia ha definito un “cancro della società”, facendo inoltre supporre che non sia contemplata un’ipotesi di riabilitazione di questi soggetti.
Questa vicenda ha inizio qualche tempo fa: le terribili pandillas sono gang importate dagli Stati Uniti, composte originariamente da immigrati di origini centroamericane, stabilitisi nei suburbs di Los Angeles intorno agli anni ’80 e ’90. Il fenomeno ha assunto dimensioni internazionali e terreno fertile per lo sviluppo di queste temibili bande criminali è stata la loro stessa terra d’origine: Guatemala, Honduras e particolarmente San Salvador. Qui le maras hanno dominato il territorio fino ad oggi, infiltrandosi nel tessuto sociale e politico, istaurando rapporti stretti anche con il governo, creando un legame molto stretto con le istituzioni che gli hanno assicurato sopravvivenza (e viceversa). Fino ad oggi.
Pare, infatti, che il regime di Bukele sia riuscito nel suo intento primario di smantellamento di questo sistema, ma a quale prezzo? La questione emergente, infatti, dopo più di un anno di reiterati rinnovamenti dello stato di emergenza – studiato appositamente dal governo per sradicare il fenomeno dal territorio nazionale – e iniziative governative che violentano i diritti umani dei cittadini è: fino a dove si spingeranno le già oltraggiose violazioni dei diritti umani perpetrate dal bukelismo?
Possono essere tollerate, in nome di una “guerra alla criminalità”, infrazioni così penetranti dei principi fondamentali di diritto (no, n.d.a.)? Il regime – e sì, è proprio il caso di chiamarlo così – di Bukele si è, infatti, distinto a causa alla sospensione di quattro garanzie costituzionali fondamentali: diritto alla difesa, all’associazione e alla libera riunione, all’inviolabilità della corrispondenza e all’ordine giudiziario per l’intercettazione di comunicazioni private.
Ad aprile 2022 si sono aggiunte nuove misure: pene di reclusione da 10 a 15 anni per la riproduzione o il rilancio di messaggi delle bande o la produzione di testi o altre forme di comunicazione che alludano alle organizzazioni criminali. Viene introdotta una riforma della legge sulla criminalità organizzata che espande la possibilità di utilizzo dei riti abbreviati e riduce – annulla – le garanzie difensive degli imputati (fonte: Radiografía de un año de régimen de excepción, ElFaro, 27/03/2023). Viene inoltre limitato il diritto degli imputati a conoscere le ragioni degli arresti e dell’obbligo alla presenza di un avvocato, consentendo ad inquirenti e agenti di prolungare il periodo di arresto amministrativo oltre le 72 ore previste per legge.
Per Bukele la repressione della criminalità passa attraverso una vera e propria epurazione: nessuna forma di reinserimento è concessa ai condannati, ed in effetti, questa è la forma di vendetta che molti cittadini si aspettano, viste le vessazioni subite per decenni a causa della maras.
Se la crudeltà e il sadismo erano i tratti identificativi della criminalità organizzata salvadoregna, i metodi del bukelismo non sono poi così lontani.
A giugno del 2022 è iniziata la costruzione del più importante strumento repressivo della politica istaurata da Bukele: il carcere più grande delle Americhe, con una capienza di 40mila detenuti ha aperto i battenti a febbraio; il suo nome è CECOT (Centro de Confinamiento del Terrorismo).È costituito da otto edifici, ciascuno dei quali contiene 32 celle. Lo spazio vitale di ciascun detenuto è di 0,6 metri quadrati. Si pensi che il Consiglio d’Europa raccomanda almeno 4 metri quadri per detenuto; il numero salvadoregno è addirittura inferiore a quello previsto dall’UE per il trasporto di animali di media taglia. Ciascuna cella è provvista di due lavandini e due bagni.
Un rapido calcolo suggerisce che quasi 170 persone convivranno in questo spazio. Si potrebbero elencare innumerevoli altri problemi strutturali e violazioni delle direttive sul diritto penitenziario, fornite dalla maggior parte delle organizzazioni internazionali, e si potrebbe anche sottolineare la pericolosità sociale e igienica di un sovraffollamento tale ma l’idea fondamentale è che questa struttura non rassicura e non cura, è solo un efficace strumento di propaganda di una politica estremamente repressiva.
Uno strumento che sopisce la rabbia di una popolazione stremata dalle angherie delle pandillas.
In questa vicenda, è possibile distinguere alcuni “fatti” – si intende: alcune verità oggettive. È un fatto che le pandillas siano state disarticolate, lo è anche l’incarcerazione di migliaia di persone innocenti – giustificate come “errori che qualsiasi sistema di giustizia può commettere”. È un fatto che il governo abbia patteggiato con queste organizzazioni, e peggio ancora, è un fatto reiterato: lo aveva fatto già Mauricio Funes, presidente dal 2009 al 2014, ottenendo una tregua dalla violenza della mara e così ha fatto il presidente corrente, per le elezioni del 2021.
Lo scopo primario era far figurare, con un accordo segreto, un numero di omicidi inferiore in contemporanea all’istaurazione di un nuovo governo, per rafforzarne l’immagine di fronte ai cittadini, per dimostrare di “essere sulla strada giusta” per la soluzione al dramma della violenza di strada.
È un fatto, più di tutti, che per poter far funzionare il regime, il governo abbia violato i diritti umani.
Il punto è che San Salvador, dal 2002, ha sempre tenuto una politica di cosiddetta “mano dura”, caratterizzata da arresti arbitrari, basati sull’apparenza e la sospettosità dei soggetti arrestati, arresti del tutto irrispettosi di ogni garanzia processuale. Queste politiche non hanno mai avuto gli effetti sperati: sono basate su un’idea di contenimento, di “sopravvivenza”, sono misure che tagliano i numeri degli omicidi oggi ma sono domani superate dall’astuzia e dalla velocità di reazione delle maras. Sono fondate sull’isolamento dei soggetti pericolosi che, come Bukele stesso ha ingenuamente sostenuto: «vivranno tra loro, senza più creare danno alla popolazione » in un mega-carcere che non rispetta nemmeno uno degli standard umanitari.
È quindi giusto domandarsi, quanto resisterà questa bomba a orologeria? Per quanto tempo è possibile rinchiudere criminali in un luogo che ricorda, nemmeno troppo vagamente, le inquietanti immagini di un allevamento intensivo, senza che questo cada nelle mani degli stessi prigionieri (come peraltro già successo a San Salvador)? E infine, a un livello più generale, per quanto ancora possiamo tollerare che umani dotati di potere, disumanizzino altri umani, loro cittadini, nell’ambito di quella che si professa come una democrazia? Perché questo è il raggiungimento di Bukele: essere riuscito a trasformare in bestie i suoi nemici, facendo leva sulla rabbia di un popolo afflitto da un’organizzazione criminale.
È una reazione primitiva quella del Presidente: ha costruito un carcere “recinto” e, come un bambino capriccioso, vi rinchiude chiunque risponda al suo profilo di criminale.
Una schizofrenia che rende precari i risultati ottenuti: la verità è che le maras esistono ancora ma hanno imparato a mimetizzarsi, i tatuaggi, oggi, sono stati abbandonati. Sono disfunzionali, sono riconoscibili. Le tradizionali bandane restano appese negli armadi, piegate nei cassetti tra calzini e mutande, ben nascoste da quel regime occhialuto, impastato nello stereotipo del pandillero che oggi non esiste più.
ElFaro, uno dei giornali di informazione più affermati dell’intero Sudamerica, conferma queste ipotesi. Durante gli ultimi mesi ha condotto diverse investigazioni in tutto il territorio salvadoregno, parlando con vittime e carnefici, poliziotti e rappresentanti di organizzazioni internazionali, parlando con impresari sottomessi per decenni alle angherie della mara, intervistando ex esponenti del sistema criminale in questione. La conclusione è che certamente « le pandillas non esistono più » ma l’assunto non è completo ed è falsamente ottimista: le pandillas non esistono più nella maniera che San Salvador ha conosciuto.
Uno degli intervistati – un esponente di spicco della struttura della mara, un veterano – alla domanda: « Il governo di Bukele ha distrutto le pandillas? » risponde: « Sì, ha distrutto le pandillas per come le conosciamo. Se quello che intendi è che non hanno più una presenza nei luoghi, è certo, non ci sono più. Se vuoi vederla in questo modo, è così, ha distrutto le pandillas » (fonte: Régimen de Bukele desarticula a las pandillas en El Salvador, ElFaro).
I problemi essenziali sono quindi due: in primis Bukele, con il regime istaurato, oltraggioso dei diritti più importanti dei suoi cittadini (compresi i carcerati), con il prolungamento di uno stato di emergenza indetto in favore di una lotta al crimine tanto spietata quanto il crimine stesso, si è trasformato in qualcosa di molto simile alla mara. Opera con violenza, incarcera arbitrariamente e senza garanzie, controlla la libera espressione, manipola le informazioni. I metodi sono forse diversi ma il risultato è comunque un’oppressione – e una soppressione- della popolazione salvadoregna.
In secondo luogo, se anche si potesse tentare una “qualifica” delle politiche di Bukele, oltre quella di disumane e incostituzionali, sospensive dello stato di diritto, si dovrebbe concludere che il Presidente abbia agito in cerca di una soluzione precaria: non tiene conto dell’evoluzione delle strutture criminali, della riabilitazione dei prigionieri, non tiene conto, soprattutto, di aver creato, tramite carceri disfunzionali, un terreno fertile per la proliferazione delle cellule della mara. E allora, forse, Bukele è rimasto abbagliato dal suo sogno di potere.
Altre fonti: LA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA IN EL SALVADOR: L’EVOLUZIONE DELLE GANG TRA CONTROLLO TERRITORIALE E DESAPARICIONES, Annaclara De Tuglie, note di ricerca