Questo 15 aprile a Khartoum, capitale dello Stato del Sudan, s’è aperto un conflitto che vede come obiettivo il controllo totale del Paese: alla sua origine, la rivalità tra i suoi due principali generali. Abdel Fattah al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, comunemente noto come Hemedti, in questi mesi hanno rotto l’alleanza che legava l’esercito nazionale con il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (RSF), capitanato da Hemedti stesso.
Nell’ottobre 2021 i due avevano insieme preso potere in un colpo di Stato, rovesciando la fragile transizione al governo civile avviata due anni prima dopo la rimozione del governatore Omar al-Bashir; sebbene schierato all’inizio dalla parte di al-Bashir, Dagalo aveva infatti preso parte al suo rovesciamento in un tentativo di aumentare la sua influenza sul territorio, sfruttando l’autonomia concessa all’RSF da una legge del 2017 e diventando così il vice di Al-Burhan alla guida della nazione.
La tensione tra i due leader si è però sviluppata con un accordo dello scorso dicembre che, rafforzando i legami tra politici e militari, ha elevato Hemedti al pari di al-Burhan.
Per affermarsi come leader e statista, in questa occasione Hemedti s’è anche alleato strettamente con la coalizione Forces for Freedom and Change (FFC), che già condivideva il potere con i militari tra il rovesciamento di Bashir e il coup del 2021.
Sia la FFC che Hemedti si sono arricchiti nel corso degli anni grazie all’estrazione dell’oro e ad altre imprese: «Come è salito alla ribalta, gli interessi commerciali di Dagalo sono cresciuti […] e la sua famiglia ha ampliato le aziende per estrazione dell’oro, bestiame e infrastrutture» ha comunicato alla stampa Adel Abdel Ghafar, membro del Middle East Council on Global Affairs (centro di ricerca indipendente basato in Qatar).
A questo legame si sono opposte alcune fazioni pro-esercito insieme ai lealisti di Bashir; una simile ostilità, connessa alla difficile integrazione dell’RSF all’interno dell’esercito come forza regolare, ha contribuito allo scoppio violento del conflitto piuttosto che a una risoluzione pacifica.
Entrambe le parti si sono accusate a vicenda, con l’esercito che ha lamentato mobilitazioni illegali da parte dell’RSF giorni prima dello scontro aperto; quest’ultima accusa invece un complotto ideato da al-Burhan e lealisti Bashir. Hemedti ha inoltre affermato, in una serie di tweet, che il governo del generale Burhan è formato da “islamisti radicali” e che lui e la RSF stanno “combattendo per il popolo del Sudan, per garantire il progresso democratico così a lungo desiderato”.
Molti trovano questo messaggio difficile da credere, dato i brutali trascorsi della RSF: evolutosi dalle milizie Janjaweed, accusate di crimini di guerra contro le comunità non-arabe nella regione sudanese del Darfur, il gruppo è uno storico alleato di UAE e Arabia Saudita, a cui nel 2015 aveva inviato armamenti per un’operazione d’intervento in Yemen durante la guerra civile.
Il gruppo include ora circa 100.000 soldati schierati nelle principali città, mentre l’esercito ha risorse superiori, tra cui forze aviarie attualmente usate per colpire le principali posizioni dell’RSF, di cui molte collocate in aree densamente popolate. Le continue sparatorie non si sono mai fermate del tutto, né in occasione di Id al-fitr (festa di fine Ramadan, tenutasi quest’anno tra il 20 e il 22 aprile) né in rispetto a una tregua che sarebbe dovuta durare 72 ore, tra il 28 e il 30 del mese.
Decine di migliaia di sudanesi sono così dovuti fuggire dalle loro case mentre milioni sono intrappolati, con una costante diminuzione nelle forniture di viveri.
Il sistema sanitario del Sudan in generale è sull’orlo del collasso dato il saccheggiamento di diversi ospedali, tra cui uno sostenuto da Medici Senza Frontiere nella città di el-Geneina; preoccupante è la recente occupazione d’un laboratorio di sanità pubblica a Khartoum, che secondo l’Oms rappresenta un concreto rischio biologico, vista la presenza di campioni virali di malattie come morbillo e malaria. La corretta gestione dei campioni è infatti resa impossibile dall’assenza di adeguato personale e dalle continue interruzioni di corrente che, allo stesso tempo, starebbero mandando in serio deterioramento le rimanenti scorte di sangue, essenziali in tempi di conflitto.
«La gente in Sudan ha chiarito che questa non è la loro guerra» scrive Hiba Morgan, giornalista sul campo per la testata Al Jazeera.
È una lotta di potere che porrà fine ai loro sogni di transizione democratica. Dovranno iniziare da zero a chiedere giustizia e democrazia dopo che ci sono voluti mesi per porre fine al governo trentennale di Omar al-Bashir. Sì, vogliono che tutto questo finisca, ma non vogliono mettere fine ai loro sogni di un Sudan diverso da quello che è oggi.
In mezzo alle due maggiori fazioni si trovano infatti numerosi gruppi ribelli di civili che protestano il coup militare dalle sue origini. Dania Atabani, 22 anni, portavoce d’un comitato di resistenza a Khartoum, rivela la propria sfiducia nei confronti d’ogni possibile vincitore: «Abbiamo negoziato con loro prima. Abbiamo dato loro molte possibilità. Ma cosa hanno fatto alla fine? Un colpo di stato. Ci hanno martirizzato, ferito e fabbricato accuse contro civili innocenti. Tradiscono e uccidono la loro stessa gente».