Del: 9 Aprile 2023 Di: Giulia Riva Commenti: 0
Vietiamo i "forestierismi". Quando la politica si fa inconsistente

Lo scorso 31 marzo è stato depositato alla Camera, da un gruppo di 20 deputati di Fratelli d’Italia guidati dallo stesso vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, un disegno di legge atto a vietare l’uso di “forestierismi” nella pubblica amministrazione, in sede giurisdizionale e non solo: tutti gli enti, siano essi pubblici o privati, dovranno presentare la propria documentazione «relativa ai beni materiali e immateriali prodotti e distribuiti sul territorio nazionale» interamente in lingua italiana così come anche ogni informazione presente in luogo pubblico dovrà essere trasmessa in italiano.

Anche «le sigle e le denominazioni delle funzioni ricoperte dalle aziende» operanti in Italia dovranno essere in lingua italiana, così come i loro «regolamenti interni» e tutti i «contratti di lavoro» stilati; chiunque ricopra cariche istituzionali, amministrative e pubbliche sarà tenuto alla «padronanza scritta e orale della lingua italiana».

Per ogni manifestazione, conferenza o riunione pubblica sarà obbligatorio l’uso di «strumenti di traduzione» per una «perfetta comprensione in lingua italiana dei contenuti»; nelle scuole di ogni livello e nelle università pubbliche i corsi che non hanno l’esplicito obiettivo di insegnare le lingue straniere dovranno essere tenuti rigorosamente in lingua italiana. Si prevede infine l’istituzione presso il ministero della Cultura di un «Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana nel territorio nazionale e all’estero»: esso dovrà impegnarsi nella promozione della conoscenza di grammatica e lessico, della corretta pronuncia, dell’arricchimento della lingua stessa, per sviluppare una terminologia propria che possa esprimere le nozioni delle nuove tecnologie senza dover adottare quella straniera.

Questo il contenuto dei primi sette articoli, mentre con l’ottavo si entra nel merito delle sanzioni previste per chi violi tali disposizioni:

«La violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 5.000 euro a 100.000 euro».

Non è la prima volta che Rampelli si fa promotore di iniziative analoghe: già in novembre aveva presentato in Senato un DDL, con firmatario il senatore Roberto Menia, allo scopo di «costituzionalizzare l’italiano come lingua ufficiale della Repubblica», mentre nelle scorse legislature aveva avanzato più volte la proposta di istituire un «Consiglio superiore contro l’abuso delle lingue straniere».

Un programma vagamente autarchico?

Rampelli si è subito affrettato a smentire, rilasciando un’intervista al Corriere della Sera in cui ha assicurato che potremo continuare senza problemi ad utilizzare termini stranieri come “bar”, “cocktail”, “flirt”, senza per questo venire multati; del resto, ha precisato, la legge riguarderebbe soltanto enti pubblici o privati (e non privati cittadini, almeno per il momento).

Per quanto riguarda il neonato Ministero del Made in Italy, nessun problema: del resto «[…] è evidente: dalle sanzioni è escluso chiunque, rappresentando gli interessi economici dell’Italia all’estero, è costretto a usare termini stranieri».

E infine, per chi avesse ancora dubbi, l’obiettivo non è quello di imporre un’italianizzazione delle parole straniere, come fece Benito Mussolini attraverso la politica linguistica iniziata l’11 febbraio 1923, con una legge che imponeva una tassa sull’uso di parole non italiane.Semplicemente se c’è un «corrispettivo» in italiano «si deve usare».

«I cittadini hanno diritto alla comprensione. Se non c’è, non c’è democrazia».

Dunque, in alto la grammatica e il purismo linguistico: chissà poi se i paladini della democrazia si sono spinti a chiedere un parere a quella cittadinanza che tanto hanno a cuore, a raccoglierne le esigenze più sentite in un momento di crisi nazionale e mondiale. Chissà se quella cittadinanza si sente rappresentata da proposte politiche che sempre più sembrano volgere al passato, nel vano tentativo di arrestare il mutamento storico, sociale, culturale, che come una marea attraversa le epoche umane.

Perché anche pensare di poter congelare la lingua è sintomo di scarso pragmatismo politico: essa è nata come strumento per esprimere la realtà, in ciò sta la sua ragion d’essere, e dunque con la realtà cambia, evolve; essa è nata per comunicare con l’altro, per creare legami umani e sociali, e per questo dall’altro, dal diverso, si lascia e deve lasciarsi influenzare. La lingua nasce dallo scambio ed è questo che la rende preziosa.

Dice Rampelli che i «processi di globalizzazione mettono a rischio, quasi ovunque, le lingue madri».

Non c’è nulla di male nel voler tutelare la specificità e l’espressione di ogni lingua, di ogni cultura, tradizione, etnia: tant’è che, all’art. 3 del trattato sull’Unione europea (TUE), si afferma che «l’UE rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica». Per giunta, anche l’UNESCO ha istituito nel novembre 1999 la Giornata internazionale della Lingua Madre (in data 21 febbraio), ugualmente volta alla promozione di tutte le lingue e culture nonché del poliglottismo, all’insegna del dialogo.

Proprio qui sta la differenza: più che aprirsi al dialogo, la nostra attuale classe dirigente sembra piuttosto volerlo chiudere.

In una costante riproposizione della dicotomia noi-loro, una dopo l’altra vediamo proposte o approvate normative in “difesa” delle tradizioni e dell’identità “minacciate” dall’esterno: dalle polemiche intorno all’uso delle nuove farine di insetto (troppo spesso presentate come un mero capriccio culinario, anziché come conseguenza estrema della crisi climatica e dell’esaurimento delle risorse terrestri che si continuano ostinatamente ad ignorare) fino alla recente decisione di vietare la registrazione dei certificati di nascita esteri dei minori figli di coppie omogenitoriali, discostandosi così dalle politiche europee e negando diritti fondamentali, alla faccia della democrazia.

Qui non si tratta della sacrosanta tutela dell’eterogeneità dei gruppi umani: si tratta, per l’ennesima volta, di un noi contro voi, dell’innalzamento di barriere assurde allo scopo di arroccarsi in una nazionalità che sfocia nel nazionalismo, escludente verso l’altro, il diverso, in una presunta identità collettiva i cui contorni sono in realtà stabiliti dall’alto, nella pretesa di poter definire cos’è accettabile, cos’è normale, cosa dobbiamo essere e fare e in cosa dobbiamo riconoscerci.

E così, si limitano diritti e si arriva persino a proporre sanzioni di 100.000 euro per qualche parola non sufficientemente italiana.

Intanto, per fare solo un esempio, ancora non siamo riusciti ad intervenire con eguale zelo contro i reati ambientali, nella costante finzione che non ci sia nulla di allarmante e nulla di irreparabile in un mondo dove i fenomeni naturali estremi si susseguono a velocità crescente e la qualità della vita sulla Terra risulta ormai irrimediabilmente ipotecata.

Speriamo dunque che tante proposte inconsistenti, incapaci di rispondere alle reali urgenze nazionali e globali che oggi minacciano miliardi di persone, possano indurci a riflettere su cosa davvero è importante qui ed ora, su cosa potrà influenzare positivamente il nostro futuro. E speriamo che questo ci porti, aldilà di delusioni e disillusioni, a fare un buon uso del nostro fragile diritto di esprimere la nostra classe dirigente, la nostra rappresentanza e, soprattutto, la nostra opinione.

Giulia Riva
Laureata in Storia, sto proseguendo i miei studi in Scienze Politiche, perché amo trovare nel passato le radici di oggi. Mi appassionano la politica e l’attualità, la buona letteratura e ogni storia che valga la pena di essere raccontata. Scrivere per professione è il mio sogno nel cassetto.

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