Del: 12 Maggio 2023 Di: Nina Fresia Commenti: 0
Il genocidio del Ruanda e l’ingiustizia normalizzata

Era il 6 aprile 1994 quando l’aereo che trasportava Habyarimana, l’allora presidente del Ruanda, veniva colpito da due razzi: della morte del capo dello stato di etnia hutu è stata accusata la minoranza tutsi, dando così inizio a cento giorni di massacri (si contano almeno ottocentomila decessi).

Jean Paul Habimana all’epoca aveva dieci anni e nel suo libro Nonostante la paura racconta il genocidio attraverso la propria esperienza: la perdita di familiari, il vivere situazioni estreme, ma anche l’impatto che ciò ha avuto sulla sua vita.

Oggi è professore di religione in un liceo milanese e si fa portavoce dell’importante memoria della pagina più nera del suo paese, usando il ricordo anche come filtro per analizzare l’attualità.


Nel suo libro Nonostante la paura ci spiega che, a differenza di quanto comunemente si crede, non è possibile distinguere un tutsi da un hutu basandosi sulle sole caratteristiche fisiche, trattandosi di termini che, originariamente, indicavano le diverse classi sociali. Come queste categorie sono diventate “etnie”? E perché sono emerse divergenze tra tutsi e hutu?

Prima del colonialismo il potere ruandese era gestito da clan.  All’arrivo dei colonizzatori (principalmente i belgi), regnava il clan di Abanyiginya, uno dei 18 presenti in Ruanda. I 18 clan erano: Ababanda, Abasinga, Abasindi, Abega, Abazigaba, Abagesera, Abanyiginya, Abacyaba, Abungura, Abashambo, Abatsobe, Abakono, Abaha, Abenengo, Abanyakarama, Abasita, Abongera e Abenengwe. In realtà queste erano grandi famiglie che poi col passare del tempo si mescolarono con altre. Nella storia del Ruanda, ci sono stati altri clan che hanno governato il Paese negli anni precedenti al periodo di cui stiamo trattando, cioè l’epoca dell’arrivo dei colonizzatori. Alcuni nomi si persero, altri non vennero più annotati come tali, perché dal colonialismo in poi i ruandesi focalizzarono la loro identità sulle classi sociali divenute “razze” invece di riferirsi agli antichi clan.

Va sottolineato che all’interno di ogni clan, prima dell’arrivo dei colonizzatori, erano presenti tutti e tre i gruppi sociali Tutsi (allevatori), Hutu (agricoltori) e Twa (cacciatori), e che non vi furono mai tensioni tra hutu e tutsi, bensì tra i vari clan. Prima del colonialismo il popolo si riconosceva principalmente nei clan, mentre i gruppi sociali erano in ogni famiglia. Si giunse al libretto d’identità (Ibuku, in kinyarwanda, dall’inglese book: libro), all’inizio degli anni ’30, con l’indicazione della “razza”, applicando così appieno le teorie del “razzismo scientifico” da tutti celebrato in Europa. Se prima era possibile cambiare attività passando da agricoltore hutu ad allevatore e diventare automaticamente tutsi, poi non fu più possibile, perché l’Ibuku lo vietava. Da quel momento un agricoltore hutu, se anche fosse divenuto allevatore, sarebbe rimasto comunque hutu, lui e tutti i discendenti per linea paterna.

La semplice classe sociale era divenuta “razza”. È da questo momento che cominciano la rivalità e gli scontri. All’epoca, gli hutu erano circa l’85% della popolazione, i tutsi il 14% e i twa, pochissimi, circa l’1%. Le stesse percentuali, grossomodo, del 1994, alla vigilia del genocidio dei tutsi in Rwanda. Col tempo si cambiò la dicitura, invece della parola razza si scrisse “etnia”, ma il significato è rimasto quello razziale.

Nel 1957 viene pubblicato il Manifesto dei bahutu e nel 1990 sono diffuse le dieci leggi bahutu, entrambe incitazioni all’odio razziale. Ci si poteva aspettare la degenerazione avvenuta nel 1994? Il genocidio poteva essere evitato?

Sicuramente gli intellettuali potevano assolutamente aspettarselo per motivi molto evidenti, come una discriminazione sistematica dei tutsi nelle scuole o nei lavori pubblici. La discriminazione che aveva preceduto la Shoah era chiara a tutti ma nessuno ha voluto imparare da essa. Si sarebbe potuto evitare il genocidio se la comunità internazionale fosse stata davvero attenta a garantire i diritti fondamentali dell’uomo. All’inizio del genocidio, tutti gli occidentali sono scappati insieme ai loro averi, addirittura con i loro cani, ma non hanno voluto intervenire direttamente per impedire i massacri. Avrebbero potuto intervenire, ma non l’hanno fatto.

Qual è la prima immagine che le viene in mente pensando al genocidio?

“L’ipocrisia”. L’ipocrisia di un mondo che sembra unito (globalizzazione), mentre al suo interno ci sono delle divisioni molto forti. Mentre nel 1994 in Rwanda temevamo la fine del mondo, altrove le persone continuavano la loro vita abituale: discoteca, scuola, lavoro, divertimento; insomma, la vita per l’altra parte del mondo andava avanti nella normalità più assoluta. Pensando al genocidio che ho vissuto vedo un mondo “ipocrita”, in quanto anche oggi, nel 2023, mentre i politici occidentali stanno litigando chiedendosi se accogliere o non accogliere gli immigrati, dall’altra parte del mondo c’è chi sta vivendo più o meno ciò che 29 anni fa mi ha portato a diventare orfano di padre, a perdere tanti parenti e a trovarmi senza casa. Eppure, siamo qui a chiederci se è giusto accogliere gli immigrati o meno, mentre i politici occidentali fanno continuamente accordi con i politici dei paesi di provenienza dei profughi. Siamo in un mondo ipocrita.

Nel suo libro racconta di tutte le difficili condizioni di vita che ha dovuto sopportare per sopravvivere: in parrocchia, in convento, murato in casa, in una fossa sotto le foglie di banano, circondato dalla distruzione. Ha mai temuto di non farcela, di non riuscire a sopportare oltre? E cosa le dava la forza di resistere?

Durante il genocidio, temevo proprio di non farcela. Pregavo continuamente Dio di farmi passare solo un giorno e farmi morire il giorno dopo. Pregavo tanto. Continuamente facevo promesse e fioretti. Tra gli altri promettevo continuamente di diventare prete: se Dio mi avesse aiutato, sarei diventato prete. Dopo il genocidio ci ho provato, ma ad un certo punto mi sono reso conto che quella promessa fatta a Dio in quel determinato momento era troppo più forte di me e sono uscito dal seminario nonostante mi mancassero pochi mesi per essere ordinato.

Si sente parlare spesso anche oggi di campi profughi, ma è difficile visualizzare che cosa significhi effettivamente viverci all’interno: com’è stata la sua esperienza presso il campo Nyarushishi?

La mia esperienza nel campo di Nyarushishi è stata tutto sommato bella e mi ha arricchito. Ero un bambino di 10 anni. Sono entrato in quel campo dopo due mesi di vero inferno: avevo passato mesi senza neanche vedere la luce del sole. Nel campo gli assassini potevano entrare in qualsiasi momento ma non so per quale motivo io mi sentivo proprio bene. La vita era durissima, avevamo da mangiare grazie alla Croce rossa che ci forniva il cibo necessario, mentre per l’acqua era davvero un’impresa. I bagni erano qualcosa di vomitevole, ma in quel contesto, la mia priorità era la gioia di potermi godere finalmente il sole.

Come lei stesso racconta nel suo libro, quando il genocidio è stato dichiarato concluso il paese era devastato: molti orfani e vedove, villaggi rasi al suolo e genocidari ancora a piede libero. Com’è possibile fare giustizia dopo un evento di questa portata? Si è in grado di perdonare?

Il genocidio è avvenuto all’interno dello stesso popolo ruandese e non è stato facile fare giustizia. In ogni caso, grazie al Gacaca, il tribunale tradizionale ruandese, è stato possibile guardarsi in faccia e fare giustizia anche se non sempre in modo ineccepibile. Chi ha confessato di avere partecipato al genocidio, dimostrando il pentimento, è stato liberato. Lo stato ha attivato tantissime iniziative che hanno aiutato le vittime a convivere con gli assassini. È’ stato un percorso difficile ma necessario e direi unico e giusto. Per quanto riguarda il perdono, invece, di fatto è sempre una questione personale. Il perdono è un dono, e come tutti i doni, non è per tutti.

Quanto è importante ricordare e testimoniare? È stato difficile per lei iniziare a raccontare?

Testimoniare è più che altro un atto di coraggio; è il coraggio di raccontare cose e fatti che spesso nessuno ha voglia di ascoltare. Tuttavia è nello stesso tempo un dovere morale che ogni sopravvissuto dovrebbe onorare. Non è minimamente facile raccontare queste esperienze così forti e drammatiche perché ogni volta le ferite si riaprono, ma man mano che si approfondisce si arriva a rendersi conto che davvero vale la pena testimoniare per un mondo migliore.

Cercando di dare una giustificazione al genocidio, nel suo libro riflette su quella che lei definisce “un’ingiustizia normalizzata”. Che cosa intende con questi termini? C’è il rischio concreto che tale ingiustizia possa portare a gravi conseguenze anche oggi?

Purtroppo l’ingiustizia normalizzata è all’ordine di ogni giorno e finché non ci tocca personalmente, viene vissuta come “normalità”. Così, ad esempio, le comunità rom vengono semplicemente viste come “pericolose”; non si cerca di conoscere la loro storia e di capire come vivono. Oggi è diventato normale parlare di sgomberare un campo rom senza offrire minimamente nessuna abitazione alternativa; non si tiene conto dei minori e delle persone più fragili che fanno parte di quella gente.

In Italia sembra normale che la burocrazia sia elefantiaca o addirittura non funzioni e poi, come in tutte le cose, quando c’è una cosa che non va, le conseguenze peggiori ricadono sulle categorie meno protette. Sembra normale accogliere i profughi ucraini, attivando tutte le agevolazioni degne di un popolo civile, e lasciare gli altri immigrati al loro destino, come se fossero persone di serie b. Questo a mio avviso ha dimostrato quanto sia vero il detto: “Il vero e il falso spesso si assomigliano, la differenza sta nella loro durata”.

Il caso ucraino avrebbe potuto rappresentare un’opportunità per riformare l’accoglienza di chi viene in Italia. Eppure, oggi sembra tutto come prima, anzi, sembra peggio. Ci si chiede ancora se sia giusto accogliere o meno e soprattutto chi accogliere. L’elenco delle “ingiustizie normalizzate” purtroppo è lungo e all’ordine del giorno. Ne ho citata qualcuna nella speranza che, un giorno, la classe dirigente possa rendersi conto che ogni paese è come una barca nel mare: o ci salviamo tutti o affoghiamo tutti. L’ingiustizia è bendata come la giustizia e può colpire chiunque. È solo questione di come e di quando.

Nina Fresia
Studentessa di scienze politiche, curiosa per natura, aspirante giramondo e avida lettrice con un debole per la storia e la filosofia. Scrivo per realizzare il sogno della me bambina e raccontare attraverso i miei occhi quello che scopro.

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