La moda second-hand è in ascesa. Secondo una ricerca realizzata da BCG e Vestiaire Collective, i capi di seconda mano rappresentano già dal 3 al 5% del mercato dell’abbigliamento, ma la percentuale potrebbe crescere fino al 40% nei prossimi anni. Inoltre, l’acquisto di abiti usati è addirittura triplicato rispetto al 2020.
Alla base di questo fenomeno, che in pochi anni ha prodotto cambiamenti non da poco nelle abitudini di consumo di molti, troviamo le motivazioni più disparate: convenienza economica, rifiuto del consumismo e minor impatto ambientale, per citarne alcune.
Qual è il comune denominatore? Secondo gli studi, la risposta sta nelle fasce d’età che hanno maggiormente contribuito alla crescita improvvisa del trend: la Gen Z e i Millennials. Insomma, i giovani. Non è una novità che le giovani generazioni siano le più squattrinate e dunque le più interessate al risparmio, ma non si tratta solo di tenersi in tasca qualche euro in più.
L’abbigliamento serve a molto di più che a coprirsi: può essere mezzo di espressione personale, di appartenenza a un gruppo e, perché no, di messaggi politici.
Basti pensare ad alcune controculture giovanili della seconda metà del Novecento. Prendiamo gli hippies, nati dal rifiuto in toto del sogno americano. Le ragazze iniziarono a portare i capelli lunghi e non acconciati, gli abiti erano spesso di seconda mano e dallo stile rilassato, in totale opposizione rispetto ai completi, ai vestiti dalle ampie gonne e alle acconciature sempre fresche di parrucchiere tipiche delle famiglie americane dei suburbs.
Dal lato opposto troviamo, invece, i paninari milanesi. Figli degli anni Ottanta, il loro stile era influenzato da quello dei giovani statunitensi, dei quali copiavano anche alcune abitudini (iconicamente, appunto, quella di mangiare panini nei fast food). Dopo il turbolento periodo del Sessantotto e degli anni di piombo, il messaggio stava nell’ostentazione del proprio benessere. Il rifiuto della politica è totale: ciò che conta è godersi la vita e consumare.
E oggi? Che cosa rifiutano i nativi digitali e, più nello specifico, quelli che scelgono di acquistare usato?
Come anticipato, un elemento importante da considerare è la motivazione etica legata alla sostenibilità. Una delle grandi sfide della nostra generazione è, in effetti, relativa alla salute del pianeta, all’impatto che le nostre scelte di consumo hanno su di esso e sulle persone che ci lavorano. Ormai sappiamo come si fanno i top di Shein.
E se è vero che da un lato preponderante TikTok, Instagram, Pinterest e una manciata di altre piattaforme catalizzano il susseguirsi continuo di nuove tendenze (che solo le multinazionali del fast-fashion sono in grado di inseguire), i social hanno anche contribuito a diffondere su larga scala la moda del second-hand e l’etica che ci sta dietro.
Oggi i giovani sembrano rendersi conto di poter influenzare le politiche aziendali dei gruppi fashion, persino dei più grandi. Per fare un esempio, Inditex, proprietaria di marchi come Zara e Bershka, si è posta l’ambizioso obiettivo delle zero emissioni entro il 2040. È (altamente) improbabile che un progetto del genere sia nato dalla spontanea generosità dei dirigenti del gruppo, mentre è più plausibile che questi ultimi abbiano recepito un chiaro messaggio dei consumatori: i brand devono prendersi le proprie responsabilità. McKinsey segnalava già nel 2019 che per ben 9 “Gen-z-ers” su 10 le aziende dovessero prendere posizione su tematiche quali la tutela dell’ambiente, il razzismo e le discriminazioni contro le donne. Se ciò non avviene, per evitare di rivolgersi a soggetti distanti dai propri valori, sempre più spesso i giovani scelgono il second-hand come alternativa.
Vestirsi usato è diventato figo. E se per un genitore, magari ex paninaro, comprare vestiti già indossati da sconosciuti è sinonimo di sporcizia e anche un po’ di vergogna – « perché, insomma, sembra che non ci possiamo permettere neanche dei vestiti nuovi! » – per un figlio indossare con orgoglio una giacca da nonno, reperita dopo lunghi scavi e conquistata per soli 5 euro, può essere motivo di vanto. Forse anche perché, ormai stanchi delle proposte standardizzate del fast fashion, i giovani vogliono distinguersi e trovare capi originali che siano solo propri.
A nessuno piace camminare per la strada e incontrare un discreto numero di persone con il proprio stesso outfit, né aprire Instagram e sentirsi uguale a decine di altre persone. Siamo esposti più che mai al confronto con gli altri, costantemente. In questo senso, l’abbigliamento può essere un modo, magari un po’ superficiale ma semplice, di esprimere la propria cifra particolare. E che cosa c’è di più particolare di un gilet di seta con stampa a papaveri, probabilmente appartenuto allo zio di qualcuno nei primi anni Duemila?
Ovviamente, come non tutti i giovani statunitensi erano hippy negli anni Settanta, e così come solo alcuni milanesi erano paninari negli anni Ottanta, allo stesso modo non si può dire che tutti i ventenni di oggi siano amanti del second-hand, né che siano interessati alla sostenibilità ambientale o a distinguersi dai coetanei. Ma è una tendenza che sta crescendo e che sembra presentare ben poche controindicazioni.
Articolo di Beatrice Lanza