La folla, la massa che racchiude tutti, la volontà comune di ognuno di uscirne, di spiccare rispetto agli altri con successo, scontrarsi poi con la realtà. Così si può riassumere la pellicola del 1928 diretta da King Vidor, un film muto di spiazzante freddezza e leggerezza, grande esempio del cinema classico americano ma pieno di soluzioni estetico-narrative notevoli, dal forte impatto visivo ancora oggi; nel 29 candidato all’oscar come migliore regia e miglior film.
La narrazione percorre i momenti salienti della vita di John, dalla sua nascita al superamento di un grave lutto. Si attraversa così l’esistenza di questo personaggio, vedendolo affrontare la morte di famigliari, l’arrivo ambizioso in una grande metropoli, le gioie dell’amore, della famiglia e la carriera lavorativa. Fin dalle prime sequenze il protagonista si confronta con due forze antitetiche: un’inclinazione personale al successo come modalità per uscire dall’omologazione, come disse il padre che, assistendo alla nascita di John il 4 luglio 1900, esclama: “Quest’ometto farà stupire il mondo”; l’altra una forza superiore che lo sovrasta schiacciandolo, conformandolo alla società, come ogni sequenza nel luogo di lavoro di John: una ripetizione di scrivanie identiche in cui persone anonime compiono la stessa azione con straniante simmetria.
Il film ragiona su questa contraddizione attraverso più modalità, la narrazione gioca premendo sulla sua accentuata banalità, per la struttura narrativa e vari momenti nella messa in scena.
La storia stessa del giovane di provincia che arriva nella grande città in cerca di successo è molto comune, è una delle tante storie tipiche nel contesto americano; similmente la messa in scena di vari momenti richiamano un già visto, un già sentito, esempio è il momento in cui John arriva nella grande città per la prima volta: la sequenza è sul ponte della nave, lui è in ombra e ne vediamo solo il corpo scuro con dietro la città enorme e sconfinata, come un nulla anonimo di fronte alla metropoli. Scena dopo è un mezzo busto sul volto di John che, colmo di speranze e aspettative, osserva la città, vicino alla sua valigia con scritto il suo nome: banale la messa in scena come banale è la recitazione, come già raccontato è in fondo il personaggio, uno tra i tanti che giovani arrivati in cerca di carriera e colmi di speranze. Ma già subito dopo il film ha una delle sequenze più notevoli e interessanti: per rappresentare la città dal suo interno e, così, il caos , il movimento continuo che la contraddistinguono, King Vidor crea un montaggio serrato di inquadrature brevi di marciapiedi pieni di persone, sovrimpressioni di automobili su altre automobili, campi lunghissimi dall’alto, uso di modellini per suggestivi movimenti di macchina che scalano palazzi incombenti. La pellicola è piena di suggestive scelte simili a questa, sia nella messa in scena sia nei movimenti di macchina che nel montaggio. Elementi che nella loro unicità sono comunque tipici del modo di rappresentare del cinema muto americano del periodo, della prima grande epoca d’oro hollywoodiana. Tutti gli stilemi del cinema classico americano sono qui presenti, King Vidor però gioca su questi portandoli all’esasperazione, ironizzandoci sopra come visto prima nella sequenza sulla nave, senza rinunciare a momenti di forte inventiva che risultano di fortissimo impatto, soluzioni di un grande cineasta maturo e ben consapevole.
John procede così la sua esistenza come un uomo tra tanti, circondato da persone che seguono le stesse abitudini negli stessi modi, muovendosi come cloni, facendo le stesse battute e rispondendo pavlovianamente agli stimoli. Secondo queste modalità si incontra anche l’amore, con appuntamenti uguali a quelli degli altri. Ogni azione che cerca di distinguersi dalla massa non fa altro che entrare in una nuova massa, sembra una sfida impossibile quella di distinguersi.
Tuttavia su questo il regista da una soluzione chiara tanto quanto spiazzante: solo nei momenti di grande dolore si è del tutto diversi dagli altri, da soli con sé stessi nel lutto e quindi distinti dal resto della società omologante.
Viene ben chiarito già a inizio film, quando John è un bambino e apprende della morte del padre: la scena si svolge su uno scalone di casa, dal gusto espressionista, prima vediamo una barella trasportata su dalle scale, nella stessa inquadratura vi è nel fondale una massa di curiosi che osserva, tra questi vi è anche il piccolo John, timidamente inizia a salire le scale avvicinandosi verso la macchina da presa finché con il suo corpo copre il resto della folla. Presto arriva una donna a confortarlo, stacco sulla didascalia e al ritorno sul bambino si nota che ora è in primo piano, con lo sfondo molto sfocato: è ora completamente separato dalla massa dietro, spicca unico rispetto agli altri, distinto nel suo intimo dolore.
Tale spiazzante presa di posizione continua per tutta la pellicola che procede in un clima di grande leggerezza, la sceneggiatura e la regia riescono a non far pesare la ripetizione ossessiva di gesti e luoghi, come già detto ironizzano così da creare comicità. Nonostante ciò i momenti di dolore sono presenti e si fanno sentire, toccando profondamente lo spettatore, sia per il forte stacco che hanno con la gaiezza del resto della narrazione, sia per le scelte registiche: esempio è John che, dovendo elaborare il più grande lutto della sua vita, cerca inutilmente di far stare in silenzio il suo palazzo, il suo quartiere e poi l’intera città, una speranza del tutto vana frutto solo della cecità data da un dolore troppo forte, qui non solo il personaggio si distingue dalla città-massa ma prova addirittura ad andarci contro, un gesto però illusorio e vacuo.
Come non ha speranza di vincere qui non ha speranza nel generale, come il suggestivo tanto quanto severo finale del film, che prima rassicura per poi schiacciare ogni soluzione di vero happy end.
The Crowd fa tremare oggi per quanto è attuale, sia nel suo raccontare la volontà comune di uscire dal comune, giocoforza rientrando in altri percorsi già consolidati risolvendosi in una somma zero, ma anche per la critica chiara alle implicazioni sociali del sistema capitalistico che vuole, desidera e pretende l’omologazione più totale, il sottostare a una normalità rigidissima. Non a caso le persone che circondano John hanno tutte un lavoro, bei vestiti, escono a divertirsi, si intrattengono, si innamorano e paiono contente e soddisfatte; quindi, sono in un sistema che funziona perfettamente ma, per essere tale macchina perfetta, necessita di meccanismi e non persone. La gente segue il sistema, segue percorsi sicuri e comuni, strade preimpostate, sembra quasi non veramente pensante, ha certo grandi sicurezze ma paga il prezzo dell’unicità, del potersi distinguere, di poter essere qualcuno e non automi: uccidono l’io per avere sicure certezze. Così la domanda che il film pone al pubblico si caratterizza in questi modi, interrogando la massa di spettatori a chiedersi se preferiscano una sicurezza totale sotto la standardizzazione o l’unicità, la non omologazione, l’io personale ma ben consapevoli del grande dolore che tutto ciò può portare.
Il film è disponibile gratuitamente in rete.