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Lo scorso 28 marzo, il governo italiano ha approvato un disegno di legge in materia di divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi sintetici. Il provvedimento, presentato in conferenza stampa dal ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida e da quello della salute, Orazio Schillaci, vieta la produzione e la commercializzazione di “alimenti o mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati”.
Per capire se si tratti veramente di una legge “all’avanguardia”, come sostenuto dal ministro Lollobrigida, occorre avere chiaro che cosa si intenda per “carne sintetica”, o, come preferiscono chiamarla gli esperti – dal momento che questi prodotti sono il risultato di processi di coltivazione cellulare – “carne in vitro”, “pulita” o “coltivata”. Si immagini di voler far crescere una piantina di pomodori in camera propria: è necessario procurarsi un seme di pomodoro, cioè un insieme di cellule appartenenti alla specie di cui siamo interessati, del terriccio, cioè un terreno di coltura ottimale affinché queste cellule possano replicare, e un bastoncino, che servirà da sostegno per la crescita della pianta. Trascorso un po’ di tempo, nel quale avremo monitorato le condizioni in cui si trovano le cellule (livello di umidità del terreno, temperatura della stanza, etc.), preleviamo una parte dell’organismo che si è formato, il frutto, e ce lo mangiamo. Si immagini ora di riuscire ad ottenere, a partire da un insieme di cellule di pomodoro e dal giusto terreno di coltura, il pomodoro, senza bisogno di dover passare per la formazione di tutto l’organismo. Sarebbe fantastico. Si risparmierebbero tempo e risorse.
Ora, si immagini di condurre quest’operazione con cellule provenienti da animali di allevamento: anziché attendere che un embrione si sviluppi in vitello per ottenerne i muscoli (gran parte dei tessuti del vitello non sono di interesse per l’industria alimentare e vengono scartati, esattamente come avremmo scartato gran parte dei tessuti della pianta di pomodoro descritta sopra), si potrebbero ricavare muscoli di vitello da un manipolo di cellule di vitello. Ebbene, ciò è possibile, come ha dimostrato il dottor Mark Post, che il 5 dicembre 2013 ha presentato a Londra il primo hamburger ottenuto tramite questa procedura.
Le cellule di partenza sono cellule staminali dell’organismo di interesse. Si tratta di cellule indifferenziate, cioè che non hanno ancora una funzione precisa: non sono cellule muscolari (quelle che ci interessano), né neuroni, né altro.
Ma perché, se vogliamo ottenere dei muscoli, non partiamo da un po’ di cellule muscolari? Perché non si riproducono velocemente, dunque si scelgono le cellule staminali (mioblasti, cellule satellite o iPSC suine), che si riproducono in fretta e possono diventare cellule muscolari se sottoposte alle giuste condizioni.
Il terreno di coltura è un brodo contenente sia il nutrimento necessario per il corretto sviluppo delle cellule, che alcune molecole in grado di guidare il processo di trasformazione delle cellule staminali in cellule muscolari. All’interno di questo liquido, oltre alle cellule, vengono posti dei materiali biocompatibili che offrono supporto fisico per la loro crescita. Hanno lo stesso ruolo del bastoncino per la piantina di pomodoro di cui sopra.
Il dottor Post spiega che la coltivazione delle cellule si svolge in due fasi: la fase proliferativa e quella differenziativa. Nella prima, l’obiettivo è quello di ottenere il maggior numero possibile di cellule staminali, mentre nella seconda, dopo la trasformazione in cellule muscolari, si cerca di renderle ipertrofiche, cioè, di ingrandirle. Durante quest’ultima fase bisogna fare particolare attenzione alla concentrazione di mioglobina nei tessuti: questa proteina è particolarmente importante nel determinare il sapore ed il colore della carne.
Ma perché dedicarci a questi processi complessi per ottenere una bistecca, quando possiamo semplicemente allevare una mucca e macellarla – metodo che funziona affidabilmente da migliaia di anni? Il motivo è semplice: l’allevamento è una pratica che presenta gravi problemi ambientali, etici, e di salute pubblica, e la promessa della carne coltivata è quella di risolverli.
A livello ambientale, la carne è uno dei prodotti alimentari più impattanti. Crescere un animale intero è un modo estremamente inefficiente di utilizzare i prodotti dei nostri campi: la maggior parte dell’energia chimica presente nel mangime (75-90%) viene “persa” per far vivere l’animale e per creare tessuti non commestibili come pelle e ossa. Questo significa che il settore dell’allevamento consuma ingenti quantità di risorse naturali – come suolo, acqua ed energia – che potrebbero essere utilizzate più efficientemente in altro modo.
In più, la FAO stima che l’allevamento produca il 14.5% dei gas serra emessi dall’uomo, contribuendo significativamente al riscaldamento globale.
Questi dati sono preoccupanti, soprattutto considerando che la domanda globale di carne potrebbe aumentare del 73% tra il 2010 e il 2050. La coltura cellulare, però, può essere parte della soluzione, poiché può soddisfare una porzione di tale domanda a un costo ambientale ridotto. Le stime disponibili suggeriscono infatti che la carne coltivata è molto più sostenibile – a livello di consumo di suolo ed emissioni di gas serra – della carne convenzionale più impattante, come il manzo. Dato il suo alto consumo di energia, però, il suo impatto effettivo dipende da vari fattori, come la fonte di energia utilizzata per la sua produzione e l’impiego del suolo liberato.
Ma l’industria della carne non è insostenibile solo a livello ambientale: lo è anche a livello etico. Decine di miliardi di animali non umani all’anno – migliaia al secondo – vengono uccisi negli allevamenti intensivi, nella maggior parte dei casi dopo una vita piena di sofferenza. Molti polli vengono bolliti vivi, molti maiali vengono castrati senza anestesia, molte scrofe vengono tenute in gabbie di gestazione talmente piccole da impedir loro di girarsi. E questa non è che la punta dell’iceberg. La carne coltivata offrirebbe la possibilità di ottenere i prodotti alimentari che desideriamo senza condannare alla sofferenza e alla morte nessun essere senziente.
Infine, l’allevamento pone una grande minaccia alla salute umana: l’antibiotico-resistenza. Negli Stati Uniti, oltre il 70% degli antibiotici prodotti all’anno e ritenuti medicalmente importanti per gli esseri umani sono impiegati negli allevamenti, dove sono somministrati ad animali che – vivendo stipati a migliaia in condizioni terribili anche a livello igienico – altrimenti si ammalerebbero. L’uso smisurato di antimicrobici aumenta la frequenza con cui emergono dei “superbatteri” ad essi resistenti, con terribili ripercussioni sulla nostra economia e salute. Un report del governo inglese stima che ciò costerà cento trilioni di dollari entro il 2050 e milioni di vite umane ogni anno.
Eliminando la necessità di rinchiudere migliaia di animali – e le loro deiezioni – in spazi angusti, la coltura cellulare può permetterci di ridurre drasticamente l’utilizzo di antibiotici per la produzione di carne, mitigando il problema.
Nonostante la ricerca debba ancora indagare diverse questioni legate ai possibili benefici che un consumo globale di carne coltivata porterebbe con sé, gli Stati Uniti hanno già iniziato a esplorare la possibilità di autorizzare la commercializzazione di prodotti a base di carne coltivata, mentre il governo di Singapore ha dato il via libera definitivo.
Per quanto riguarda l’Unione Europea, invece, l’ultima parola spetterà all’EFSA (European Food Safety Authority), la quale si è recentemente espressa in questi termini: “L’agricoltura basata sulle cellule e in particolare la carne coltivata […] e i frutti di mare coltivati, potrebbero essere considerati una soluzione promettente e innovativa per contribuire al raggiungimento […] di sistemi alimentari equi, sicuri, sani e rispettosi dell’ambiente. Tuttavia, il potenziale impatto ambientale e l’impatto sugli aspetti della sostenibilità devono essere valutati a fondo e la sicurezza deve essere stabilita”. In altre parole, al momento l’EFSA incoraggia l’avanzamento della ricerca ma non esprime un parere netto, anche perché attualmente non è stata avanzata alcuna richiesta di commercializzare prodotti a base di carne coltivata nell’UE.
Per questo motivo, il disegno di legge di cui il governo Meloni vanta con orgoglio la paternità è di fatto privo di utilità, in quanto, in assenza di un via libera dell’EFSA o in caso di parere negativo, i prodotti a base di carne coltivata non approderebbero mai nei nostri supermercati; nel caso in cui il parere fosse positivo, invece, il divieto italiano si porrebbe in contrasto con il principio europeo della libera circolazione delle merci, di fatto costringendo il governo a sollevare il divieto di importazione ma non quello di produzione. Inutile dire che, in questo scenario, ad essere penalizzate dalla scelta del governo sarebbero le tanto elogiate “aziende italiane”.
Perché, dunque, dedicare tempo ed energie a una questione su cui il governo non ha – e non avrà – pieno potere decisionale? Per distogliere l’attenzione dei cittadini da questioni più incombenti (vedi PNRR)? O piuttosto per parlare a quella fetta di elettorato che attribuisce grande importanza alle tradizioni italiane, a partire da quelle enogastronomiche, e che si sente minacciata sia sul piano della salute che su quello culturale dal progresso scientifico? O, ancora, per soddisfare le istanze di una lobby – Coldiretti – con cui c’è sempre stata una certa sintonia?