
Un errore che si verifica spesso all’indomani delle elezioni amministrative è trarne in modo troppo diretto un significato nazionale, interpretarne i risultati come sintomo o futura causa di un vento generale che cambia, quando invece ogni situazione gode delle proprie specificità. Non è però ingenuo, spostandosi dall’ambito degli equilibri politici a quello comunicativo, intravedere aspetti che possano essere sineddoche di qualcosa di più ampio, purché si tenga presente la loro parzialità e potenzialità, senza determinismo.
Sotto questa lente, certi episodi legati alle ultime elezioni locali possono mostrare un cambiamento nell’utilizzo dei social network da parte della politica: fra i contenuti più circolati in rete c’è un breve e psichedelico video di Calandrino, candidato consigliere comunale a Pisa (la cui coalizione di centrodestra ha vinto, benché la sua lista abbia ottenuto meno dell’1%), o ancora il videoclip trap caricato su TikTok da Giurlani, sindaco uscente in provincia di Pistoia e ricandidatosi vice (la sua coalizione ha perso al ballottaggio contro il PD). Più sistematico e degno d’interesse è il caso delle amministrative di Catania, dove due candidati civici per il ruolo di sindaco (Lanfranco Zappalà e Giuseppe Lipera) hanno gestito in modo accorto le proprie campagne sia su Instagram che su TikTok.
L’accortezza e la piccola novità non stanno nel semplice uso delle piattaforme, ormai diffuso, ma nei contenuti pubblicati (video ad hoc e non meri repost di materiale esterno) e nel format impiegato (finti incontri “fortuiti” per strada che davano il via alla propaganda).
Quest’ultimo infatti, inserito fra meme piuttosto in tendenza allora (desunti soprattutto dalle parodie di video di questo tipo ma recitati in modo malcelato), ha incontrato i favori degli algoritmi dei due social, che hanno conferito ai due una certa viralità (soprattutto a Lipera, che si avvaleva del contributo del candidato consigliere Fabrizio Corona), per quanto spesso ironicamente canzonatoria. Senza esagerarne l’importanza (entrambe le liste civiche si sono fermate intorno al 2%), si può riconoscere una progredita consapevolezza nell’uso politico dei social network che ha avuto le sue avvisaglie quattro anni fa in alcuni dei primi video di Salvini su TikTok, per l’appunto creati appositamente e inseriti in format di moda.
A fine 2019, il passaggio di testimone dalla Lega a Fratelli d’Italia come forza trainante del centrodestra era ancora solo all’orizzonte, meno che in fieri: apparenti dominatori pioneristici della comunicazione social erano Salvini e la sua cosiddetta Bestia, mentre gli alleati parevano al massimo rincorrerlo.
Quando il leader leghista aprì un profilo proprio su TikTok, infatti, fu seguito a distanza di un giorno da Meloni (sbarcata intanto anche sul russo VKontakte), ma l’accoglienza non fu delle migliori: Luciano Spinelli, allora definito come il tiktoker più seguito d’Italia, lamentò «invasione di campo» e un’impossibilità di discorsi approfonditi data la brevitas obbligata sul social cinese (che intanto L’Espresso paragonava ai 140 caratteri di Twitter). Salvini decise di restare, mentre Meloni ritenne forse i tempi ancora acerbi e chiuse il profilo TikTok.
Si sono dovuti aspettare tre anni perché, alle soglie delle elezioni del 2022 e con alle spalle un ormai lungo rodaggio su Instagram, i leader politici si rivolgessero nuovamente a un TikTok nel frattempo accresciuto in popolarità:
a Salvini si erano già aggiunti, a inizio anno, Meloni e Conte; agli sgoccioli della campagna elettorale arrivò poi Calenda ad agosto e, tutti insieme il primo settembre, Renzi, Berlusconi e Sgarbi (e anche il PD, che però preferì l’account istituzionale ad uno personale di Letta). Di Maio giunse invece fra gli ultimi, il giorno dopo, senza godere di grande viralità (primordi di una travagliata parabola social proseguita con la cancellazione dei profili dopo la sconfitta elettorale, l’hacking del suo sito personale e il recente ban temporaneo da Twitter).

È inutile negare che dal punto di vista formale l’approccio di questi politici sia stato impacciato e forzatamente giovanile (dall’ostentata autoironia dei due leader del Terzo Polo al totale infantilismo del tik tok tak di Berlusconi), o nel migliore dei casi limitato al repost di contenuti esterni alla piattaforma, come spezzoni di interviste televisive. C’è però anche da dire che la pletora di critiche rivolte ai leader politici più che la forma riguardava l’essenza, il fatto stesso che costoro si trovassero su TikTok (indipendentemente dal come), a priori: un po’ per disprezzo esterno dovuto al complesso di superiorità che molti utenti di Instagram tendono ad avere nei confronti del “nuovo” social, ma in buona parte le critiche sono venute dall’interno.
Tiktoker più che affermate come Emma Galeotti ed Elisa Esposito hanno subito invitato i politici ad abbandonare la piattaforma, con toni forse dovuti anche a quel sentimento che Spinelli nel 2019 definiva icasticamente «invasione di campo»:
TikTok era stato per anni derubricato a social dei balletti e adesso improvvisamente i leader ne approfittavano per tornaconti elettorali, peraltro confermandone paternalisticamente l’immagine di piattaforma puerile.
In parte è vero che il loro arrivo così rapido aveva tutto l’aspetto dello strategico opportunismo, anche se forse volto a non restare ultimi in una gara comunicativa più che a mungere voti, data la demografia di TikTok e le poche settimane mancanti alle elezioni.
D’altro canto, da parte di quegli stessi influencer interessati a combattere l’etichetta di social frivolo e infantile ereditata da Musical.ly (genitore partenogenetico di TikTok), ci si aspetterebbe che accogliessero la possibilità di usi più seri e articolati come quello politico o quello divulgativo (certo, mutatis mutandis come su ogni specifica piattaforma e in modo meno goffo). Non che l’uso politico di TikTok non ponga problemi relativi a strumentalizzazione e disinformazione: come e più di altri social network il suo algoritmo può incentivare le semplificazioni polarizzanti, la decontestualizzazione, tecniche sensazionalistiche di click-baiting e nello specifico rage-baiting (l’indignazione provocata). Ma da quando in qua il potenziale abuso di uno strumento in sé neutro deve comportare l’abolizione dello strumento?
Come per altri rischi connessi all’uso di Internet, il proibizionismo e il dogma dell’astinenza servono a ben poco: i social sono mezzi comunicativi e come tali saranno sempre sfruttati dalla politica, con il pericolo costante di un uso improprio.
Al pari di quanto accade con gli altri media, dunque, è impensabile vietarne l’impiego da parte dei leader – ma questo non significa che debba vigere il far west normativo.
Porre dei limiti, anzi, significa proprio riconoscere e legittimare il mezzo: il paradosso per cui il silenzio elettorale può essere “violato” sui social network risiede nel vuoto legislativo di una legge risalente al 1956 che nemmeno li considera, mentre ammetterne l’esistenza sarebbe il primo passo per regolarli. Non solo: si potrebbe anche voler proteggere il target anagraficamente giovane di TikTok, come si fa già nella normazione della pubblicità televisiva (anche se l’argine principale alla disinformazione è un’educazione all’uso consapevole dei social media) e come forse la Francia farà con i figli degli influencer.
Se però davvero nel 2019 qualcuno temeva l’eccessiva influenza che Salvini avrebbe potuto avere sui giovanissimi tramite «propaganda» e «vittimismo», la soluzione per i suoi avversari quale poteva essere (appurata l’impossibilità ed indesiderabilità di un ban)? Lasciarlo unico politico sul social per tre anni, com’è avvenuto, o piuttosto pluralizzare l’offerta? Difendere un appropriato uso politico di TikTok non significa ignorare la questione della privacy sui dati, né ha a che fare con gli usi meno istituzionali rivendicati dall’ex-senatore Razzi o con la battaglia terzopolista alla presenza dei più giovani sui social (rinvigorita dalla tragedia di Casal Palocco, che sta spingendo il governo a creare reati ad hoc).
L’uso o abuso pubblico di queste piattaforme è poi una questione di grado, che si tratti di profili dei politici in prima persona o dell’impiego dei creatori di contenuti come testimonial: c’è tutto uno spettro che va dall’ingaggio dei Ferragnez e di Ibrahimović per promuovere le mascherine alle istruzioni impartite dalla Casa Bianca ai tiktoker sulla guerra in Ucraina. Il mondo non si divide insomma solo fra chi balla al Papeete e chi, come Aldo Moro, metteva giacca e cravatta pure in spiaggia.