
Lazzaro Felice (2018) è il film di punta di Alice Rohrwacher: vince a Cannes 2018 il premio per la migliore sceneggiatura. È una storia che fornisce una definizione di cosa possa essere la bontà, delle sue conseguenze e della sua natura semplice. È una storia sul nascere di un’amicizia nell’animo di chi non ha mai conosciuto quel sentimento e sul suo perseverare anche attraverso dimensioni temporali sfalsate. Questo film ha la forma di una fiaba, a cavallo tra tradizione e novità: i personaggi sono immersi in un clima pastorale collocabile forse negli anni ’90 (un po’ alla Ermanno Olmi), la loro vita è totalmente distorta, senza contatto con il tempo storico della narrazione: sono una cinquantina di mezzadri, ancorati alla terra del loro feudatario, la Marchesa Alfonsina De Luna. La vita controtempo che conducono Lazzaro e la sua famiglia inizia a corrodersi già dal momento in cui il giovane contadino e Tancredi, figlio della nobildonna, fanno amicizia.
È la forza di questo legame che introduce l’elemento magico in questa storia:
Lazzaro viaggia nel tempo, rimanendo immutato nelle sue sembianze di ventenne si ritrova catapultato nella nuova realtà dei suoi compagni di sventura, vittime prima di quel Grande Inganno inscenato dalla marchesa, poi della metropoli che non trova spazio per loro, rendendoli schiavi ed emarginati doppiamente. «Gli esseri umani sono come le bestie. Liberarli vuol dire renderli consapevoli della propria condizione di schiavitù». In questo nuovo ed enorme universo che è la città, Lazzaro cerca Tancredi. Nelle note di regia si legge:
Lazzaro felice è la storia di una piccola santità senza miracoli, senza poteri o superpoteri, senza effetti speciali: la santità dello stare al mondo e di non pensare male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani.

E in effetti spicca subito il protagonista: non tanto Lazzaro in sé stesso, quanto più quella sua preziosissima dolcezza, pura nel senso di intoccata dalla bruttezza dell’essere umano sociale. È il contatto con quella sovrastruttura a imbruttirlo o a calpestare la natura buona dell’uomo. Lazzaro muore per quella sua innocenza, ucciso dai suoi stessi simili nel compiere un gesto, ancora una volta, di bontà, di amicizia e lealtà. Non muore tra le fauci del lupo, muore tra i calci dei cittadini. Buono, santo, perdente. La pellicola restituisce una definizione di bontà fondata sull’idea di abdicazione del sé, per lasciare spazio agli altri, ce lo dice la sorridente accondiscendenza del protagonista mentre tutti urlano «Lazzaro fai …!». E, sbilanciandoci un po’, restituisce anche l’idea che la felicità del buono sia la felicità altrui, e che in fondo ai buoni non interessi essere i protagonisti della propria biografia, quanto più essere le fondamenta su cui poggiano le storie degli altri. Ed è un’idea bellissima e pericolosa, è fantasiosa e non trova spazio nella schizofrenia della società di sempre. È un’idea di bambino e di animali, loro sì che forse onorano questa forma cruda di bontà. L’orrore deriva dall’accorgersi che l’uomo non fa altro che rivivere un flusso infinito di medioevi, prima materiali, oggi umano. E non cambia nulla tra la schiavitù di un feudo e quella del cemento e dei grattacieli.
A volte capita per errore che un Lazzaro attraversi l’universo uomo e allora tutti si voltano spaventati, aggressivi e magari scambiano una catapulta per una pistola (forse una delle scene più dolorose del film).
E il Lazzaro non sa rispondere alle accuse, non sa difendersi, può solo farsi calpestare. Sempre dalle note di regia:
«Questo tipo di santo è un folle prima di diventare pazzo, è uno stupido prima di essere tonto, è colui che è intatto, che è sempre uguale a sé stesso mentre il mondo si affanna a cambiare, o, forse, a fingere di cambiare. Un cambiamento più simile a quello di un abito, che una mutazione profonda, interiore»

Questa fiaba ha il sapore amaro della verità. Alla Rohrwacher si deve infine riconoscere un’attitudine alla fotografia molto interessante: le inquadrature aeree dell’Inviolata, il feudo dove si svolge la prima parte della narrazione, sembrano quasi dei video di sorveglianza, aumentano la sensazione di isolamento e distacco dalla realtà. I colori e i toni malinconici e freddi sostengono un messaggio centrale: per quanto cambino le cornici e i tempi storici gli sfruttamenti si fanno solo nuovi ed attraenti. E notevoli sono anche i quadri silenziosi, come se la cinepresa si insinuasse timida tra le sterpaglie dei campi a osservare quella iperbolica ed invisibile schiavitù.
Un film necessario. Una denuncia rassegnata.