Del: 26 Luglio 2023 Di: Martina Vercoli Commenti: 0
La situazione nel campo profughi di Dadaab

Secondo il recente Global Trends report dell’agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR), alla fine del 2022, nel mondo, circa 108.4 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case a causa di persecuzioni, violenze, violazioni dei diritti umani o conflitti. Rispetto all’anno precedente, c’è stato un aumento di 19 milioni di persone. Più di una persona su 74 è stata costretta allo sfollamento forzato.

I dati sono a dir poco sconcertanti. Soprattutto se pensiamo che si tratta dell’aumento più consistente mai registrato tra un anno e l’altro, secondo le statistiche dell’UNHCR. 

Sempre nel 2022, un totale di 3,8 milioni di persone ha ottenuto la  protezione temporanea e 336.800 sono state riconosciute come rifugiati su base collettiva. La maggior parte dei rifugiati riconosciuti su base collettiva sono stati ospitati in vari Paesi africani, tra cui 99.700 sudanesi del Sud (principalmente in Sudan, Uganda, Etiopia e Kenya), 53.900 cittadini della Repubblica Democratica del Congo (in Uganda), 28.500 Maliani (principalmente in Burkina Faso e Mauritania) e 27.000 cittadini nigeriani (In Camerun e Niger).

Il campo di Dadaab è nato nel 1991, come rifugio temporaneo per più di 90,00 rifugiati che fuggivano dalla guerra civile in Somalia.

Il paese al tempo stava vivendo un intenso periodo di violenze, che avrebbe lasciato una ferita profonda per molti anni a venire. Più di trent’anni dopo, Dadaab, in Kenya, è divenuto il campo profughi più grande del mondo. Coloro che sono stati tanto fortunati ad essere sopravvissuti alla guerra civile e che pensavano di andare verso un futuro migliore, sono finiti in una vera e propria prigione a cielo aperto, in cui nulla sembra muoversi, se non verso un lento ed inesorabile declino.

Oggi il campo, secondo l’UNHCR, conta più di mezzo milione di residenti provenienti da diversi paesi del continente africano, in particolare Somalia, Etiopia, Rwanda, Sudan, Eritrea. Composto da 6 campi distinti, si estende per chilometri e chilometri di terra ed è ancora in costante crescita.

Solo durante il 2022, circa 45.000 Somali sono giunti a Dadaab.

Come tanti campi profughi nel mondo, da un insediamento temporaneo è tristemente diventato una sistemazione permanente, una cruda realtà che non accenna a cambiare per centinaia di migliaia di individui che vorrebbero tanto tornare nei loro paesi di origine e costruirsi un futuro.

Per esprimere il sentimento straziante dei rifugiati, il loro dolore nell’essere lontani da casa, il forte desiderio di tornarci e la loro nostalgia di un futuro che sembra impossibile, una parola della lingua somala è stata coniata nel campo: Buufis. Il significato esatto indica “un forte desiderio di reinsediamento”

Ogni campo è diviso in sezioni, che sono a loro volta divisi in blocchi.

Ogni sezione è formata da un minimo di un blocco ad un massimo di circa 30 blocchi. Ogni blocco è gestito da due leaders: un uomo e una donna. I due leaders a loro volta eleggono un uomo e una donna che saranno a capo della sezione. I leaders sono essenziali nel sistema di leadership del complesso di campi, perché sono il collegamento con l’agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR) e coloro che risolvono i conflitti che possono avvenire nei vari blocchi.

Secondo l’UNHCR, i rifugiati, soprattutto coloro che al campo sono giunti in tempi recenti, hanno urgente bisogno di assistenza non solo perché spesso arrivano fisicamente debilitati e con malattie facilmente trasmissibili, ma anche perché i posti nelle baracche del campo si stanno esaurendo. Per questo, molti rifugiati sono costretti a vivere in rifugi di fortuna con accesso limitato o nullo ai servizi igienici e all’acqua potabile.

Le condizioni di vita sono estremamente precarie per tutti, nessuno escluso. Il campo è situato in una zona deserta in cui è molto difficile far crescere qualsiasi tipo di vegetazione. «Si piantano i semi, ma non c’è nulla da raccogliere», afferma Dekow Ali, un abitante del campo.

Non vi è solo un problema di sovraffollamento, ma anche di strutture precarie.

La nuova popolazione risiede in condizioni ancora più povere in termini di cibo, assistenza sanitaria ed istruzione. Le principali forme di sostentamento sono il soccorso, le rimesse e il bestiame. Alcuni rifugiati hanno avviato piccole attività commerciali per soddisfare i bisogni quotidiani.

Nonostante alcuni giovani del campo abbiano avuto la possibilità di formarsi, non hanno alcuna opportunità per guadagnarsi da vivere. Il governo kenyota ha anche istituito una politica che limita gli spostamenti dei rifugiati all’esterno del campo. Questo significa che i rifugiati non possono avere accesso al mercato del lavoro e sono fortemente dipendenti alle donazioni di cibo dell’UNHCR e di altre agenzie umanitarie presenti sul campo.

La situazione estremamente difficile ha fatto sì che si sviluppasse una rivalità tra i rifugiati e i kenioti locali per la gestione delle risorse che scarseggiano sempre di più. L’accesso all’acqua, la legna e l’uso della terra per le attività commerciali, sono alcune delle fonti di maggior collisione tra le due comunità. Durante i numerosi periodi di siccità, la tensione è scoppiata dall’erogazione di aiuti ai rifugiati che superano l’assistenza alle comunità locali. Questo ha spinto circa 40.000 kenioti a registrarsi in maniera fraudolenta come rifugiati.

Come parte del loro mandato, le Nazioni Unite, in collaborazione con il governo del Kenya, hanno iniziato a fornire assistenza umanitaria.

A causa dell’enorme portata delle operazioni, le Nazioni Unite hanno lavorato a stretto contatto con altre Organizzazioni Non Governative, sia nazionali che internazionali. Le organizzazioni umanitarie hanno fornito aiuti alimentari d’emergenza, acqua, servizi igienici e assistenza sanitaria attivando un meccanismo di coordinamento adeguato.

Particolare attenzione è data alla sicurezza degli operatori umanitari e dei rifugiati, in quanto, secondo Bob Ngobi, il responsabile del coordinamento sulla sicurezza sul campo di Dadaab, l’area è ad alto rischio proprio per la sua vicinanza alla volatile Somalia e per l’esistenza di cellule terroristiche che operano nel Paese.

Martina Vercoli
Studentessa di Corporate Communication presso l’Università degli Studi di
Milano. Amo viaggiare, scrivere, bere cappuccini e parlare di progetti di mobilità Europea.

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