“I tempi difficili creano uomini forti, gli uomini forti portano a tempi facili, i tempi facili generano uomini deboli”. Così recita uno fra i più celebri e antichi detti americani, il quale, seppur supponendo il fin troppo semplicistico bipolarismo fra “facile” e “difficile”, riaffiora per rivelarci una dura realtà: il nostro tempo, noi, non lo conosciamo.
Il mondo dell’informazione, dell’attualità e dei suoi derivati riversa infatti in uno stato comatoso. Un’epoca come la nostra, dalle complessità e dalle contraddizioni così elevate, affetta da un’inguaribile frenesia nel possedere tutto e subito, ci ha portati a negare l’importanza estetica. La causa sorge dalla necessità di assorbire dati, formule, fatti, critiche ed elogi ad una velocità tale da ignorare la posizione cruciale del mezzo che opera sulla nozione. In questo modo, se al soggetto narratore viene sottratto il proprio potere, ne risente l’informazione stessa, spogliata della sua profondità, appiattita culturalmente. Avviene così che la notizia diventa un granello di sabbia, pronto con la prossima folata di vento a lasciare il posto a moltitudini di altri, uguali in forma e contenuto.
I mass media contemporanei privano così di una tensione verso l’arte, uno stimolo che sia frutto di creatività, avulso al “prodotto al passo con i tempi”, ma piuttosto che quei tempi impari a conoscerli. Appare quindi chiara, per una maggiore auto-coscienza, l’esigenza di esporre l’oggetto della politica sapendo conciliare il bello e il vero: la bellezza di un piano sequenza, la complessità di una melodia e la narrazione cruda di un periodo che sappiamo essere tormentato, ma di cui ignoriamo le ragioni, non leggendo, non guardando, non ascoltando.
Chi invece ha saputo meglio di chiunque altro leggere, guardare e ascoltare il mondo, lo ha fatto nella Francia fragile e sregolata del secondo ‘900.
Con Jean-Luc Godard e con i suoi film ci si addentra in un groviglio di mondi, di storie, di politica, di sentimenti, di uomini che falliscono e ritrovano loro stessi, soccombendo alla disillusione.
Fra i registi più politici e più attenti a decifrare i cambiamenti della società, è intento a catturare l’attimo, l’istantanea emblematica, raffigurativa di un tipo umano, della domanda e delle incertezze che lo avvolgono.
Il corso di etnologia che seguirà all’Università della Sorbona, nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, porta a comprendere uno dei più grandi interessi del regista: la cultura, la maniera in cui essa si declina nelle varie civiltà, la modalità con cui il cittadino la vive, la subisce e ne modifica i fondamenti. Lo studio culturale preannuncia il maggiore interesse di Godard, quello di esplorare visceralmente ciò che accade oltre la sua cinepresa, trattando di protagonisti che non vivono meramente in funzione di loro stessi, ma come manifesto di un pensiero collettivo. La bravura dell’artista passa dalla sua capacità di mostrare i timori e i desideri del cittadino medio attraverso le relazioni fra i personaggi, mediante la loro generale ostilità con l’ordine costituito. Il soggetto godardiano scappa, combatte contro l’autorità, rinnega il proprio posto nel mondo.
Nel primo film della sua vasta monografia, “A’ bout de souffle”, del 1960, la prima cultura a passare sotto la lente di ingrandimento di Godard è proprio la sua. Si dirama infatti un intenso conflitto fra il cittadino criminale, truffatore, privo di una ragione di vita, propenso alla mera sopravvivenza; e lo Stato francese, il potere che lo domina, l’antagonista da cui deve fuggire.
Nonostante la tematica politica sia ancora timida, appena accennata e sempre messa da parte in favore di una connotazione estremamente esistenzialista di cui si carica il protagonista, Godard svela fin dalla sua prima creazione l’interesse nel trattare di uomini ai margini della loro società, costretti a vagare lontano da essa, criminali di cui la sua Francia vorrebbe liberarsi.
L’aspetto civile appena intravisto nella prima pellicola trova uno spazio proprio all’interno del secondo film, “Le petit Soldat”, realizzato in contemporanea con il primo, ma che uscirà nelle sale solo nel 1963. Il film presenta l’atmosfera della guerra d’indipendenza algerina che giungerà al termine nel 1962, ancora una volta attraverso gli occhi dell’aggressore, dell’oppressore che scatena il disordine, un giovane appartenente ad un’organizzazione terrorista di estrema destra intenta a combattere per sfinire la resistenza algerina che richiedeva autonomia dai coloni francesi.
Nella pellicola il centro gravitazionale è assunto dalla violenza, della tortura della guerra terroristica; di un mondo, quello post- bellico, che sul fronte occidentale si sta confrontando con l’esistenza, ormai appurata, di diritti intrinsechi della natura umana, dunque inviolabili.
L’opera nei temi risente fortemente della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, in particolar modo facendo chiaro riferimento ai primi 2, che affrontano rispettivamente la libertà e l’uguaglianza di tutti gli esseri umani in dignità e diritti; l’affermazione di tutte le libertà enunciate nella Dichiarazione stessa per ogni popolo, per ogni individuo senza distinzione di razza, di etnia, di cultura.
Tali articoli vengono trattati e analizzati da Godard nel segno opposto, esibendo due popoli nel loro odio, nel disprezzo e nell’atrocità. Pur non veicolando attraverso il suo cinema una reale appartenenza politica, designando quello che il naturalismo ottocentesco avrebbe definito “documento di realtà”, Godard invita apertamente il popolo francese ad essere fiero portatore degli ideali della Dichiarazione, a prendere una posizione di fronte alle vicende della sua epoca.
L’impegno politico godardiano è baluardo di un mondo in cui la politica e l’arte si servono, del modo di fare arte e di viverla.
I suoi capolavori si ergono infatti come capisaldi del movimento cinematografico francese della “Nouvelle Vague”. Nato fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta da alcuni autori della rivista cinematografica “Cahiers du Cinéma”, era atto a ritrarre il divenire, il momento storico del presente nella sua problematicità, nelle sue controversie, nelle sue crisi politiche e artistiche, fornendo al cittadino francese uno specchio nel quale finalmente cogliere le proprie brutture, capire a quali principi aggrapparsi. Il cittadino francese degli anni ’60 ha visto dentro sé stesso, ha compreso il posto che detiene per rispettare i principi della natura umana: da questa presa di coscienza si rivela l’utilità di Godard ai giorni nostri.
Quella che propone non è altro che una rappresentazione plastica ed evidente di ciò che, chi ha vissuto la sua generazione, ha percepito sulla propria pelle: la sapienza del mestierante posta al servizio dell’informazione. Il cinema prodotto in questi termini, ci è utile proprio per ricordare di un’esperienza in cui l’arte e l’impegno civico si sono intrecciati, per scampare dal disinteresse nei confronti dei principi che fondano la nostra democrazia.
Dalla lacuna di una simile esperienza cresce nei giovani lo scetticismo sia per le cariche istituzionali che per la protesta spontanea, protagonista al tempo di Godard; dall’incapacità nel fornire una raffigurazione efficace di un noi fin troppo indefinito, smarrito fra le battaglie per moda, di tempi troppo ridotti per entrare nelle categorie “facile” o “difficile”.
Quali uomini siamo o in quale tempo ci troviamo, spetterà perciò solamente a noi capirlo.
Marco La Rosa