Non tutti possono reggerne la visione, non tutti possono sopportarne l’esistenza. Uno dei film più censurati della storia, più di 50 paesi l’hanno censurato per eccesso di violenza; alla sua uscita nel 1980 furono tagliati 326,4 metri di pellicola.
Talmente ben fatto che ai tempi si pensò che fosse uno snuff movie (video che riprendono torture realmente messe in pratica durante la realizzazione e culminanti con la vera morte della vittima), e determinò l’avvio di varie cause legali contro il regista, Ruggero Deodato, e vari membri della crew.
Cannibal Holocaust è tornato nelle sale lo scorso agosto, restaurato in 4K e privo di censure. Tornano con lui le polemiche su di lui, su ciò che rappresenta, su ciò che inscena e ciò che non simula. Ma emerge anche un qualcosa di inaspettato: una visione così radicale forse oggi ci serve, forse ne abbiamo bisogno.
Questo articolo contiene immagini e descrizioni di scene molto forti, violente ed esplicite. Consigliamo a chi fosse sensibile a questi contenuti di non proseguire la lettura.
Il film è diviso in due parti: nella prima, girata tutta in 35 mmm, un antropologo insieme a due esperti esploratori intraprendono un viaggio nel cuore della giungla nella profonda amazzonia. Cercano resti di una precedente spedizione, un gruppo di giovani documentaristi scomparsi. All’interno della giungla vi è una zona, il Green Inferno, in cui i documentaristi si sono addentrati per riprendere le popolazioni locali, due tribù di feroci cannibali mai viste da uomo bianco. Qui il gruppo con l’antropologo si reca, trovando il materiale filmato dei documentaristi.
Si apre così la seconda parte del film, tutta in un 16 mm a mano molto graffiato: la visione delle riprese dei documentaristi, un film nel film, un found footage (tecnica in cui la visione di un film ritrovato porta avanti la narrazione del film, idea che quesa pellicola portò nel cinema come nessuno prima) in una sala di proiezione di un’emittente tv intenta a mandare in onda il materiale video.
Questo materiale, come numerose sequenze durante la spedizione dell’antropologo, contiene scene raccapriccianti, di ultraviolenza, mutilazione contro persone e animali. L’incredibile realismo e l’assenza di qualsisia filtro sono uno dei motivi che allontanarono tante persone dalla pellicola, che causarono rabbia.
Ma a far infuriare molti, giustamente, furono le violenze contro gli animali: ogni singolo animale ucciso nel film è stato ucciso per davvero, le sequenze in cui si vedono morire sono vere scene di uccisione riprese, del tutto esplicite, con momenti che non si dimenticano, come l’apertura di una tartaruga o una scimmietta a cui è aperta la testa.
Tante furono le critiche feroci che gruppi animalisti e non fecero al film, altrettante le motivazioni che portarono il regista a girare questa scelta.
Principale è sicuramente la conquista di un realismo incredibile, così importante che molti all’uscita del film pensavano che anche le violenze contro gli umani fossero vere. Un realismo del tutto coerente con l’idea di film nel film, di mockumentary perfettamente funzionante: quest’ultimo riesce benissimo a distanziarsi dalla storia che lo contiene, e lo fa da un punto sia tematico che estetico.
Il documentario, infatti, è girato in maniera diversa: macchine da presa più leggere, tenute sempre a mano, la pellicola è un 16mm volutamente con una pasta che esalta di più l’impurità, che risulta graffiata dando un effetto di low budget. Cannibal Holocaust è stato il primo film horror rilevante ad usare la tecnica del mockumentary, o falso documentario, tecnica che poi esploderà a fine anni ’90 con film come The Blair Witch Project, Paranormal Activity e tutto il filone di film horror tipici degli anni 2000.
A sua volta Cannibal Holocaust si inserisce in un filone, di cui è il più noto esempio: la Cannibal Exploitation, o cannibal movie, di cui l’Italia era capofila.
Infatti, sul finire degli anni ’70 esplose la moda di fare film horror, thriller, porno, porno-horror a tema cannibalismo. Titoli come Il Pianeta del sesso selvaggio (del ’72) di Umberto Lenzi, che aprì il filone, o Mangiati vivi! e Cannibal Ferox; altri come Antropophagus, Orgasmo Nero e altri di Joe D’Amato; Ultimo Mondo Cannibale di Ruggero Deodato, primo film della trilogia cannibale di Deodato di cui Cannibal Holocaust è il secondo, conclusa da Inferno in diretta del ’85.
Tutti questi registi, e altri non nominati, erano accomunati dal coraggio di fare film del tutto espliciti, scene di violenza mai vista senza calmierature alcune, per andare contro le idee tipiche del cinema popolare, a volte per criticare in negativo la società loro contemporanea. Un cinema di genere che aveva, ed ha, le sue forti nicchie di fan.
Cannibal Holocaust si inserisce qui ma ad un livello unico.
Si problematizza ragionando su se stesso, ponendosi in dialettica con la sua stessa struttura: il film nel film, cioè il documentario, è problematizzato dal film che lo contiene, ovvero quello che presenta l’antropologo come protagonista il quale, a sua volta, è problematizzato dal film che noi spettatori vediamo, ovvero Cannibal Holocaust che, in un cerchio chiuso, è problematizzato dai due film che sono una critica alla violenza nei media.
Un cerchio chiuso estremamente coerente e incoerente. Questo meccanismo può agire anche in senso opposto, ovvero dal film vero al finto documentario, sia se lo poniamo centrifugo che centripeto funziona. L’opera di Deodato è di un coraggio spiazzante, non solo mette in scena violenze inaudite, non solo mette in scena la morte, ma problematizza tutto questo fino alle ossa, fino a sé stesso e a ciò che sé stesso rappresenta.
Certo, si può dire che questa sia una gigantesca scusa per girare sequenze violente e uccisioni di animali. Può essere vero, ma una scusa che problematizza sé stessa è comunque di grande coraggio e interessante nella sua unicità. Bada bene che tutto ciò non giustifica le violenze contro gli animali, esse sono terribili ed erano evitabili, il film funzionava anche senza; vero è che funziona tremendamente meglio con quelle scene (e il tremendamente è d’obbligo).
Insieme a loro ci sono rappresentazioni di stupri, mutilazioni, mutilazioni genitali, lapidazioni, evirazioni, aborti decisamente brutali e, ovviamente, cannibalismo. Una continua esposizione che, se si riesce a sopportare e digerire, a fine film si respira diversamente.
Tutte scene, come ogni scena del film, girate magistralmente, livelli altissimi di cinematografia.
Non solo per la capacità di Deodato di cambiare linguaggio da narrativo a documentaristico, ma per ogni aspetto: dai movimenti di macchina al modo in cui gestisce la tensione, dall’illuminazione realistica ai cromatismi che danno inquadrature di bellezza unica con la fotografia di Sergio d’Offizzi, fino al montaggio perfettamente funzionale di Vincenzo Tomassi. Bellezza nella giungla fitta di pericoli, bellezza nei fiumi fangosi, bellezza in un albero decorato da teschi e pezzi di vestiti, bellezza in un villaggio sugli alberi, bellezza in una donna impalata.
Ad amplificare tutto vi sono poi le splendide musiche di Riz Ortolani: dolce e piacevole nella giungla, poderosa con le scene di violenza, Deodato stesso affermò che si rese conto della quantità di violenza del film solo quando aggiunse le musiche. Il Main Theme è di un’angosciosa delicatezza e subito riconoscibile, Adulteress’ Punishment porta sonorità aliene di gotico splendore, Crucified Woman ha le sonorità di una gioia silenziosa mista terrore sottopelle, Savage Rite racchiude tutto questo con modi moderni ancora oggi anche se intrisi di sonorità tipiche di quegli anni.
A questo film hanno lavorato assoluti professionisti, ben consapevoli di quello che sanno fare. Girarono principalmente in Colombia, le scene in città a New York e gli interni spesso a Roma. Le riprese durarono 9 settimane e si svolsero nel 1979. La F.D. Cinematografica produsse tutto questo, anche se ancora oggi bellissimo, anche negli effetti speciali, non era una produzione ad alto budget: 180 milioni di lire. Nonostante l’esplosione dei film cannibali del periodo prima citata, ci volle comunque un grande coraggio a produrre questo: ai tempi erano film stroncati dalla critica e la maggior parte del pubblico li odiava. Ma lo stesso misero i soldi, credendo ad un grande rischio. La storia li ripagò, il film è un cult tipico, il botteghino non ebbe tale fortuna.
Da qui si può partire per chiedersi cosa Cannibal Holocaust dica a noi dell’oggi, cosa ci può dire a noi di noi, cosa ci racconta della nostra epoca.
Oltre al grande esempio di cinema che è, oltre alla grande influenza che ebbe, oltre al fascino di non riuscire a resistere al vedere la violenza, oltre al gusto della violenza che critica e che pone: oggi qualcuno produrrebbe mai un’opera così radicale? Oggi in Italia qualcuno penserebbe mai a fare un film così? Per queste questioni è un film che oggi andrebbe ricordato, soprattutto dagli appassionati di cinema, soprattutto in contesto universitario, specialmente in Statale.
Gli ultimi anni hanno visto una crescita di idee basate sul rispetto, sulla sensibilità prima di tutto, sull’evitare l’offesa, sull’allontanarsi da essa. Un atteggiamento bacchettone e moralista che non è per forza un male, in quanto a principi di accettazione e pluralismo, ma che lascia spazio anche a molti dubbi e problematiche (che non si analizzeranno qui perché si uscirebbe troppo dal tema). Il film di Deodato è all’opposto di tutto ciò, punta diretto al contrario di tutto ciò.
Turba ancora oggi e turba oggi in maniera diversa da ieri: forse meno, in quanto quando uscì ci furono varie iniziative di protesta, che fan notare quanto il ruolo del cinema e della cultura era sentito, oggi invece il cinema ha un ruolo non così centrale. Forse di più, visto quanto sarebbe alternativo rispetto a tutto ciò che oggi viene proposto al cinema, e non solo.
Probabilmente qualche protesta ci sarebbe se tale film fosse proiettato in Aula Magna.
Talmente è all’opposto e agli antipodi di quello che oggi si continua a mettere al centro di molti discorsi, come l’importanza di non offendere la sensibilità altrui, che mostra le contraddizioni di tale ragionamento. In un mondo in cui si dibatte, giustamente e pertinentemente o meno, perché la rappresentazione – per esempio – di un certo popolo sia rispettosa, immaginarsi un film in cui si taglia veramente la testa di una tartaruga è abominio, è inconcepibile, è da censurare? E’ da eliminare? Se non è da censurare perché oramai è stato fatto, è da condannare nell’oblio? E se ci fosse qualcosa qui che non c’è da nessun’altra parte?
C’è una sequenza, nel film, in cui i documentaristi bruciano un villaggio di indigeni, uccidendone molti. Sulle spoglie di una capanna la ragazza del gruppo (interpretata benissimo da Francesca Ciardi) è seduta, dietro vi sono gli indigeni fermi. Si avvicina il suo ragazzo, principale motore del gruppo, interpretato da Perry Pirkanen: i due iniziano ad amoreggiare sui carboni spenti della casa, che cela probabilmente dei cadaveri. La sequenza è di una dolcezza ed erotismo incredibili, l’innamoramento e il sentimento tra i due è palpabile, forte, profondo, leggero, sensuale, recitato magnificamente in un contesto scambroso.
Oggi una sequenza così non verrebbe neanche pensata.
Non è per forza un male, appunto, ma mostra i limiti del tipo di pensiero di rispetto e inclusione oggi presenti. Ne mostra i limiti grazie al coraggio che questa pellicola ha, per la forza unica che ha nel raccontarlo, per la radicalità dell’atto, per la consapevolezza profonda che ha.
Il realismo più crudo è sempre temuto, guardare ciò che non dovrebbe esistere è il principale modo per esorcizzarlo, perché per conoscere qualcosa bisogna prima guardalo, per combattere qualcosa bisogna prima conoscerlo. Non si può parlare di rappresentazione della violenza, di problema nel mostrare o non mostrare la violenza senza affrontare la rappresentazione stessa della violenza meno calmierata possibile, sarebbe essere disonesti intellettualmente.
Per qualsiasi discorso sulla violenza in un’opera, nell’immagine, nei media e nello sguardo, Cannibal Holocaust è una tappa fondamentale, e questi discorsi oggi sono molto in voga.