Nel 2017 un uomo decide di comprare una diciassettenne in Bangladesh, spende cinquemila euro, si trasferisce con lei a Brescia, si sposano. Il rapporto è violento: la donna viene picchiata ed umiliata di continuo. Viene continuamente minacciata di tornare al paese d’origine se si fosse ribellata, l’uomo la insulta. Ad un certo punto lei trova il coraggio di chiedere il divorzio, poi denuncia tutto ciò che ha dovuto subire.
Questa storia è ora nelle mani della Procura di Brescia, che ha richiesto l’archiviazione del caso sin dal principio. Pochi giorni fa il Pubblico Ministero Antonio Bassolino ha chiesto l’assoluzione per l’uomo. Le motivazioni sarebbero da ricercarsi nell’assenza di prove e nell’impianto culturale che lo avrebbe costretto ad agire secondo dettami diversi da ciò che viene proibito nella legge italiana. In sostanza, secondo il PM, in Bangladesh è normale avere un rapporto violento con la moglie, quindi non ci sarebbe motivo di condannare il singolo uomo, ma la responsabilità sarebbe dell’intera cultura a cui fa riferimento.
La legge non è uguale per tutti quindi, in quanto il Codice Penale sembra soggetto a variazioni in base al contesto culturale di chi compie gesti violenti.
Ad ogni modo il processo terminerà ad ottobre e sarà solo allora che potremo verificare in che modo sono state discusse le parole del PM. Ad oggi la Procura di Brescia si è dissociata dalle frasi, indicando come lui operasse soltanto a nome di se stesso e non di tutto il dipartimento. Hanno anche sottolineato come negli anni la Procura sia sempre stata dura contro i casi di violenza di genere e che, insomma, non voleva avere niente a che fare con le dichiarazioni incriminate.
Le affermazioni si fondano su stereotipi razzisti, in cui si omologa tutta la popolazione del paese ad una cultura, che promuoverebbe la violenza sulle donne. È chiaro come sia impossibile che il magistrato abbia controllato ogni casa in Bangladesh e che sia davvero a conoscenza della cultura di cui parla: fa riferimento all’idea comune dell’uomo violento come appartenente ad un altro mondo, lontano dal nostro.
È un meccanismo semplice: si deumanizza l’aggressore e si giustifica il suo comportamento con motivazioni irrazionali, come “era un pazzo”, “un mostro”, “una bestia”.
Molto spesso entra in gioco anche il razzismo: si tende a sottolineare la correlazione tra chi commette violenze sessuali e il paese d’origine, amplificando la risonanza di casi che, in realtà, non sono tanti come quelli percepiti. Quest’idea è talmente radicata nell’opinione pubblica, che anche persone come il PM di Brescia vi hanno fatto ricorso. Allo stesso tempo, sfruttare questa motivazione per ritenere l’aggressore innocente significa anche deresponsabilizzare una persona che ha compiuto gesti violenti e di stampo patriarcale.
Quando un gesto del genere viene perpetrato da uomini di cui nessun magistrato possa cercare l’albero genealogico per poter finalmente indicare il motivo della sua mostruosità, allora si viene condannati e la cultura non viene mai citata. Mai. Si parla sempre di raptus, di uomini posseduti dalla bestia notturna, che ad un certo punto fa perdere loro la lucidità e li spinge a gesti estremi nei confronti delle persone che dicono di amare. Si pone l’enfasi sul loro lavoro comune, sul fatto che fossero padri di famiglia di stampo tradizionale, come ad indicare che in quel momento avessero “perso la testa”. Oppure si allontana psicologicamente l’aggressore da tutto ciò che ci è vicino: lui non è come noi, è un pazzo, un mostro, non è lucido, non è italiano. È un modo per togliere la responsabilità a chi fa parte da sempre del sistema patriarcale e gode dei suoi privilegi dalle cabine di pilotaggio.
Ci si sente tranquilli sulle proprie poltrone di velluto, quando i “cattivi” sono altri, lontani, diversi. Altra cosa sarebbe se si parlasse di violenza di genere e di patriarcato come sono nella realtà dei fatti e non nel modo in cui accarezza la testa a chi vuole continuare a vivere del proprio privilegio senza porsi domande. La violenza di genere è un problema che da anni non viene affrontato nel modo adatto, continuando a tappare i buchi con dei decreti legati alle emergenze, che, alla fine, non possono molto contro una cultura che è di stampo patriarcale. Lo vediamo in ogni gesto maschile: tutto ciò che viene insegnato ad un bambino è che deve dominare, parlare quando vuole, prendersi ciò che è suo; ma molto spesso è più semplice incolpare qualche singolo o qualche cultura lontana, piuttosto di mettere in discussione un sistema millenario.
Un’altra questione che entra in gioco è la vittimizzazione dell’aggressore. Giustificando i gesti compiuti dall’uomo, il rischio è che il messaggio fra le righe sia che anche lui è una vittima. Porre l’attenzione su un dettaglio di questo tipo è molto pericoloso, in quanto fa credere che possa esistere un ribaltamento dei ruoli dato dalla narrazione che vuole mostrare tutto il pathos solo nei confronti dell’uomo e non della vera vittima. La conseguenza diretta dell’attenzione posta nei confronti dell’uomo è, molto spesso, il victim blaming.
Anche in questa storia arriva dritta al punto, poiché nel documento redatto dalla Pubblica Accusa, si legge che “la donna in origine avrebbe accettato la sua condizione di subalternità”. Interessante come qui non si richiami alla cultura d’origine e non si faccia riferimento ad un disegno più grande, è solo colpa sua, in fondo. Colpa di una persona che è stata venduta al proprio cugino all’età di 17 anni e che è rimasta con lui per ben sei anni prima di riuscire a denunciare. Prendiamo per assurdo che potesse davvero essere stata colpa della donna: come si può scappare da un uomo che ti tiene sotto scacco e che ad ogni tentativo di fuga minaccia di riportarti in Bangladesh? Si vive da schiave, da sottomesse, si dice sempre sì e si cerca di sopravvivere, finché è sicuro denunciare e non si avranno ripercussioni. Ma le ripercussioni arrivano sempre, soprattutto da parte di chi non conosce la storia, spesso è la stampa a riportare titoli fuorvianti che spostano l’attenzione su dettagli irrilevanti per indicare che, forse, la colpa era un po’ anche della vittima; in questo caso è stato il PM che si occupa del caso a suggerire una forma di victim blaming.
Nonostante sia arrivata la richiesta di non infangare la reputazione del magistrato che ha affermato qualcosa di assurdo, è importante conoscere le radici del pensiero. Le sue frasi non sono uscite a caso, sono radicate nella mentalità italiana e fanno parte della nostra vita comune. È inutile stupirsi di quanto detto, in quanto il patriarcato è uguale per tutti: da sempre vive come un’ombra alle nostre spalle e, per quanto la ignoriamo, è sempre presente.