Chi ha mai visto Suits? Se sei uno studente di giurisprudenza, sicuramente ne hai almeno sentito parlare. La serie segue le vicende di un grande studio legale di Manhattan e mostra una realtà lavorativa che può esercitare un certo fascino sullo studente, alle prese con i suoi grandi libri e le lunghe sessioni di studio.
Ma com’è nella realtà lavorare per una grande law firm?
Ce ne parla l’avvocato Sergio Anania, partner dello studio legale internazionale Withers.
Ci parli del suo studio
Withers è uno studio decisamente internazionale, di impronta anglosassone. Abbiamo sedi in molte parti del mondo, per esempio a Singapore, Hong Kong, Tokyo e in Svizzera. I dipartimenti principali sono tre: Private Client and Tax, Business (a cui partecipo) e Dispute Resolution.
Quali sono gli aspetti più interessanti del suo lavoro?
Come operatori giuridici in campo commerciale abbiamo la possibilità di osservare e di partecipare allo sviluppo dello ius mercatorum in prima persona. Abbiamo vissuto da vicino le vicende di istituti come ad esempio il leverage buy-out o di recente il SAFE (Simple Agreement For Future Capital), da quando erano semplici pratiche finché sono stati normati e tipizzati. Per me questa è la più grande soddisfazione: iniziare a lavorare su un’esigenza singola del cliente e vedere che poi, piano piano, il prodotto da te realizzato viene copiato da altri studi e, infine, considerato uno standard di mercato.
Questa possibilità di seguire lo sviluppo del diritto è più accessibile in uno studio grande che in uno tradizionale?
È difficile dare una risposta univoca. Lo studio internazionale dà la possibilità di passare periodi all’estero e di confrontarsi quotidianamente con soci provenienti da tutto il mondo, dei quali si apprezza il modo diverso di ragionare. Si è molto più permeabili alle nuove idee. In questo senso, vedere strutture più evolute della nostra, o problemi cui è già stata data risposta, semplifica la nazionalizzazione degli istituti.
Invece gli studi italiani con un’impronta più tradizionale, spesso guidati da accademici, hanno un atteggiamento più dogmatico, diverso dal nostro che tende a essere pragmatico. Nessuno dei due metodi è migliore dell’altro, ciascuno ha i suoi vantaggi e svantaggi.
Quali sono altre differenze fra i due tipi di studio?
Una differenza rilevante riguarda la burocrazia interna, più complessa in una grande struttura internazionale. Per fare un esempio, negli studi nazionali tradizionali non si “segnano le ore” di ciascun professionista, ossia non c’è la contabilità industriale basata sul lavoro del singolo professionista: la definizione dei risultati del team è in gran parte lasciata alla percezione del socio. Invece, in uno studio che conta migliaia di professionisti come il mio, è necessaria una contabilità sofisticata che monitori la produttività del singolo. Un’altra differenza, più che altro fra studio individuale ed associato, sta nel fatto che nel primo si ha solo un rapporto con i propri clienti, viceversa nel secondo c’è l’elemento aggiuntivo dei colleghi e dei soci. La gestione dei rapporti con i soci è certamente complessa, ma allo stesso tempo è un punto di leva e di crescita importante.
Abbiamo parlato degli aspetti migliori, quali sono invece le sfide maggiori della professione?
Le sfide maggiori… beh io ho iniziato la mia carriera come responsabile dell’ufficio legale di SanPaolo Finance (ora Intesa). Passando dalla banca allo studio professionale, immaginavo di avere sfide di tipo tecnico enormi. Invece l’aspetto più difficile per me è stato … la lotta contro il sonno. Le ore di lavoro e l’attenzione costante che devi dare ai clienti. Insomma, l’aspetto più impattante è l’entità rilevante del tempo dedicato alla professione, è questo il challenge maggiore. Questo tema crea un problema soprattutto per le colleghe donne, che spesso si trovano a dover fare una scelta di campo fra famiglia e professione, il che non è assolutamente giusto. Ma rispetto “ai miei tempi” questo approccio workhaolic alla professione si sta mitigando molto.
Quindi per esempio quanto dura la giornata di lavoro media?
Per un socio direi una decina di ore al giorno, tra lavoro in studio, pubbliche relazioni con i clienti, monitoraggio dell’operato altrui e gestione generale insieme ai soci. Come dicevo, c’è una struttura organizzativa complessa, le attività sono molteplici e diversificate.
A proposito di questa organizzazione complessa, quali sono le posizioni e gli scatti di carriera al suo interno?
Il primo gradino è quello di praticante, che per almeno un anno assorbe nozioni. Poi inizia a prendere dimestichezza con le pratiche e fa qualcosa in proprio, ma sotto lo stretto controllo dell’associate. Dopo due o tre anni è un professionista giovane ma produttivo. Alcuni studi preferiscono assumere i praticanti già formati, ma a me e ai miei soci piace creare le risorse nello studio, dando un proprio imprinting. È importante sapere che cosa pensano i giovani e una delle più grandi soddisfazioni è vedere i propri collaboratori crescere nello studio. Poi dopo l’abilitazione si diventa associate, posizione che prevede tre o quattro gradini a seconda dello studio. Dopo la strada si divide in due sentieri: quello dei soci equity e quello dei soci salary. Questi ultimi sono persone con una grandissima esperienza ma spesso senza una propria clientela, che preferiscono ritagliarsi uno spazio maggiore per la vita privata.
Tornando alla base della piramide, secondo lei quali sono le caratteristiche personali e di curriculum che dovrebbe avere chi si approcci a uno studio come il suo?
Sicuramente deve avere un buon voto di laurea e possibilmente un master, che serve soprattutto a certificare una buona conoscenza dell’inglese. L’importante è che il candidato abbia svolto lavoro all’estero e che abbia una buona conoscenza dell’inglese tecnico.
Passando alle caratteristiche personali, quelle fondamentali sono due: l’attenzione e il pragmatismo. L’attenzione ai dettagli è necessaria perché spesso il praticante è colui che ha in mano le bozze e i documenti, quindi non deve sfuggire assolutamente nulla. Nella mia esperienza, chi ha una votazione alta all’università generalmente è attento. Per quanto riguarda il pragmatismo nella gestione del progetto, intendo che il praticante non deve perdersi nel labirinto della teoria e deve avere il polso di ciò che serve al cliente, che è generalmente poco interessato alle disquisizioni tecniche. Bisogna avere l’impostazione teorica, però è la concretezza che consente di essere visti dal cliente come un supporto e non come un intralcio.
Una qualità importante è anche la pazienza nella progressione di carriera. Per fortuna nel nostro settore i praticanti e gli associates sono ben pagati: è giusto remunerare la professionalità e dare indipendenza economica al giovane. Tuttavia, la ricerca esasperata del miglioramento economico a tutti i costi non è un plus. Ecco perché quando vedo nel CV troppi cambi di studio in periodi ravvicinati divento sospettoso e cerco di approfondire il livello di affidabilità del candidato.
Perché consiglierebbe a un giovane giurista di lavorare in uno studio internazionale?
Dipende dall’interesse di ognuno. Se si ha inclinazione per un settore di nicchia uno studio internazionale potrebbe non essere il più indicato. Viceversa negli studi associati vi sono dipartimenti diversi e quindi ci si interfaccia con tante materie e con persone che fanno lavori molto diversi. È anche vero che non è semplice il passaggio interno da un dipartimento all’altro; perciò, il consiglio che do è di indirizzarsi bene verso un segmento che appassiona. Un buon motivo per scegliere uno studio associato di medie-grandi dimensioni (sia esso internazionale o nazionale), è che dà una visibilità al proprio CV che altri studi non danno. Tuttavia, non bisogna mai dimenticare che l’avvocato è comunque un professionista che deve stare sul mercato. Molti pensano di entrare nello studio associato e di trovare il “posto fisso”. Ciò è sbagliato, il passaggio a socio non dipende solo dalle caratteristiche tecniche, ma anche e soprattutto dalla capacità di conquistarsi clienti dentro e fuori dallo studio. Questo è il driver portante dell’avvocato, non bisogna dimenticarlo.
Ultima domanda. Secondo lei quali sono le prospettive per il futuro della sua professione?
Dipende dall’orizzonte temporale. Nel breve le prospettive sono buone. La professione cambierà, come è sempre accaduto, ma il suo ruolo si manterrà nel tempo: più i sistemi economici e giuridici diventano complessi, più serve uno specialista che dia consigli nei vari ambiti. Sicuramente l’AI avrà un impatto rilevantissimo, soprattutto nella formazione dei giovani, perché gran parte del lavoro di un praticante (ricerche giurisprudenziali, analisi ecc.) può essere fatto a costo zero, in modo più efficiente e veloce, grazie all’AI.
Complessivamente vedo un futuro positivo per i professionisti che avranno la capacità di evolversi velocemente, seguendo un mondo che è in continua evoluzione.