Del: 7 Settembre 2023 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0
Procacciatori di affari. Una riflessione sull'esistenza

Procacciatori di affari, adattamento teatrale firmato Massimo Scaglione dell’omonimo racconto di Primo Levi, racchiude il dilemma del nostro apocalittico presente: converrà abitare qui tra cent’anni?

Siamo in una stanza bianca e opaca, la cui asetticità porta subito in una dimensione fuori dal tempo. Un’anima che deve ancora incarnarsi incontra un curioso terzetto: procacciatori d’affari, così si presentano, impegnati a proporle un viaggio esistenziale nel nostro pianeta, in offerta sul dépliant tra le occasioni imperdibili. Anche se poi, assieme alle fotografie, saltano fuori immagini di fame, disastri ambientali e guerre insensate, che i tre cercano di nascondere goffamente. Il racconto leviano è insomma la storia di un non-nato in cui l’uomo è una possibilità, una delle forme di incarnazione e non l’unica. 

È quello che la critica letteraria, per dare un nome coi fronzoli a un relativismo di complessa digestione, chiama di solito post-umanesimo. 

Aprire un ventaglio prospettico oltre ai vicoli che calchiamo di solito è sempre un buon esercizio di ginnastica mentale. E se le anime esistessero pure prima del vagito in culla, degli accenni embrionali, del concepimento? Ammesso che non ci è dato saperlo, un’ipotesi del genere getta una luce diversa anche sulla questione della natalità: uno degli assilli del ventunesimo secolo, era degli otto miliardi di sovraffollamento globale ma di scarsa verve procreativa e invecchiamento della popolazione (almeno tra noi occidentali). 

Asterischi e politically correct ci insegnano oggi che le parole non volano via come nei detti latini, ma formano il pensiero con la loro aurea gravità. 

Fare un figlio è un’espressione tanto semplice quanto pesante: arroga a noi terrestri una forza poietica e creatrice che forse non abbiamo – e se dovessimo solo accompagnare un’anima, sconosciuta o ritrovata dopo qualche incarnazione in cui siamo stati lontani? Vista così, la prole pare tutto meno che una nostra appendice. I figli non sono nostri: una tremenda recisione verbale del cordone all’ombelico. Che sia invece la base per rispettare la loro identità, individualità, il fatto che sono altro da noi? 

Si pensi oppure alla fatidica domanda, subdolo strumento investigativo della piovra che, appropinquandosi ai trenta, sente prudere l’ansia dell’accasamento – pena l’insensatezza della sua esistenza: Ti piacciono i bambini

Si possono davvero immaginare i bambini come una totalità da amare o respingere in blocco? 

Ci sono bambini simpatici e no: sono persone, mica pupazzetti, e il loro essere bambini durerà su per giù fino ai primi brufoli. Sono gente di ogni tipo che per coincidenza biografica si ritrova a crescere nello stesso decennio. Può piacere la faticaccia di conoscerli uno a uno, perdere la pazienza a capire come prenderli per mano, far finta di conoscere le risposte ai loro dubbi. Nella maggior parte dei casi, chi vanta un amore vago e generico per i bambini non ci ha mai avuto a che fare in concreto. Il che sorprende, vista la pruriginosa fretta di metter su famiglia a ogni costo. E in effetti, a lavorare cogli umani in miniatura, i frutti di questa genitorialità sconsiderata si vedono eccome. Ma si sa, la scuola deve pensare a tutto, salvo poi chiamare in causa il TAR quando bacchetta le dita al bullo di turno. 

Mettere al mondo qualcuno è un gesto di puro altruismo; per questo è normale e legittimo lamentarsi. 

Non si fa per colmare i vuoti di una relazione di coppia che non funziona, perché lo vuole la società, per avere un badante tra quarant’anni. Non si fa con la pretesa che la famiglia monogama eterosessuale sia il solo incunabolo ammissibile di un’infanzia serena. Nessuna cultura ha la ricetta per un’infanzia felice, nemmeno noi che nasciamo nell’emisfero privilegiato. Tutto ciò che possiamo offrire è il passe-partout di andata per il pianeta Terra, e poi chissà. 

I bugiardini per la vita, se si escludono i divertimenti letterari di Georges Perec, sono sempre stati introvabili. La vita è una ma nasciamo tante volte quante ci liberiamo da una chimera, e siamo morti finché respiriamo una vita d’altri, in sordina, incastonati per paura nel lavoro o nella relazione sbagliata. Forse l’aldilà esiste e ci risarcirà delle ingiustizie di qui, dei conti in sospeso che la morte batte sul tempo. O magari vivere è brutto e basta e oggi, a un nascituro del 2023, un procacciatore d’affari direbbe che la bellezza deve scovarla dentro di sé, custodire la fantasia per non ingrigirsi. Se t’aiuti poi Dio t’aiuta, aggiungerebbe una nonna: mica t’ha messo al mondo a farti aspettare la grazia.   

C’è sempre una componente di casualità, o di un piano che ci sfugge, da cui non ci possiamo proteggere. 

Noi, gioventù agli sgoccioli, e nemmeno i bambini che avremo. La forza di volontà fa tanto ma siamo più piccoli di ciò che crediamo, e le nostre certezze precarie. Forse faremo pace con la ricerca ossessiva del modello di genitorialità perfetta quando capitoleremo di fronte alla nostra impotenza, e avremo il coraggio di dire che, in eredità ai posteri, lasceremo ben poco: un mondo nudo e crudo che non cela più i suoi orrori, e insieme il dono del disincanto. Perdere l’ingenuità fa male, ma solo la prima volta; e se lo fai presto, in un mondo in cui conviene, avrai sempre un analgesico e una scorza spessa così. 

Il dépliant terrestre di questo mese è pessimo, e sembra improbabile che un’anima, contemplandoci dall’etere, si entusiasmi all’idea di un viaggio dalle nostre parti.

Eppure, tra le tante cose che non capiamo dell’aldiquà, c’è proprio il malsano attaccamento alla vita che ci accomuna, chi più chi meno. Lo stesso che, perfino dopo un’esistenza brutta e quindi trascorsa a difendere chi non vuole bimbi per scelta, a capire chi abortisce per responsabilità, a ripetere che il genere umano si avvia a una meritata estinzione, non lava via il tarlo degli sconosciuti che potrebbero capitarci come figli. Anzi, resta sempre un senso di folle simpatia al pensiero di noi, loro, gli scapaccioni, la difficoltà del mettere in pratica tutta la pappardella dei genitori non invadenti. 

Nei meccanismi di riproduzione ci fregano il sesso e la speranza, vera croce della nostra specie disgraziata. Magari ne ha un po’ anche l’anima nella stanzetta bianca, che a questo punto saremmo curiosi di conoscere: scoprendo nel mondo una schifezza s’illude di cambiarlo e freme dall’alto dei cieli. D’altronde, chi siamo per sentenziare l’esito delle sue battaglie, della sua collera, del suo cammino cieco come il nostro? Non gliela diamo, un’opportunità? 

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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