I Rohingya sono un gruppo etnico minoritario di religione musulmana che vive da secoli nello stato del Myanmar, precedentemente noto come Birmania, a maggioranza buddista. La maggior parte di loro si è insediata, nel tempo, nello stato costiero occidentale di Rakhine, che affaccia sul golfo del Bengala.
Nonostante vivano in Myanmar dal 600 d.C circa, i Rohingya non sono mai stati riconosciuti come gruppo etnico ufficiale. Nel 1982, il governo militare in carica si fece promotore della «difesa dell’identità Burmese», adottando una legge che nega la cittadinanza alla minoranza musulmana. Provvedimento che ha ben presto fatto dei Rohingya la più grande popolazione apolide del mondo. In quanto apolidi, sono stati loro negati, nel corso degli anni, i diritti fondamentali e la protezione di base. Sono stati definiti dalle Nazioni Unite, come la minoranza etnica più discriminata al mondo. Ad oggi, la maggior parte dei rifugiati Rohingya vive per il 98% in Bangladesh e in Malaysia.
Ma facciamo un piccolo passo indietro.
Fin dagli anni ’70, il popolo Rohingya ha iniziato a subire repressioni e violenze. All’inizio degli anni ’90, sul territorio dello Stato di Rakhine, viene lanciata un’operazione di pulizia etnica dal nome che fa certamente venire i brividi: «Pyi Thaya» (letteralmente: «operazione Nazione bella e pulita»), ad opera delle forze armate del Myanmar (Tatmadaw), con il pretesto di colpire delle cellule insorgenti di origine musulmana.
Il culmine, definito anche come il momento più buio della storia del popolo Rohingya, avviene nell’agosto del 2017, quando una cruenta ondata di violenze scoppia sempre nello stato Rakhine del Myanmar, forzando il popolo musulmano al grande esodo per fuggire dall’orrore scaturito da violenze sessuali ed altri abusi, da interi villaggi rasi al suolo, da migliaia di famiglie barbaramente uccise o separate.
Secondo un rapporto dell’Agenzia Internazionale per lo Sviluppo dell’Ontario (OIDA) sono emersi dei dati a dir poco sconvolgenti concernenti le azioni cruente delle forze statali del Myanmar.
Si stima che più di 34.000 Rohingya siano stati gettati tra le fiamme e oltre 114.000 brutalmente picchiati. Inoltre, è stato stimato che ben 18.000 donne sono state vittime di violenza da parte dell’esercito e dalla polizia del Myanmar.
Nonostante l’esercito stesso abbia dichiarato che le sue «operazioni di sgombero» fossero dirette meramente a militanti e terroristi rohingya, i civili sono stati gli obiettivi principali degli attacchi brutali e implacabili dell’esercito, che ha seminato morte e distruzione.
Più di 742.000 persone, tra cui numerosi bambini, sono stati costretti a cercare rifugio in Bangladesh, dove, organizzazioni non governative come l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e Medici senza frontiere offrono costantemente la loro assistenza umanitaria, denunciando al contempo la forte precarietà delle condizioni igienico-sanitarie in cui si trova a vivere quotidianamente il popolo Rohingya.
Com’è la situazione 6 anni dopo la diaspora forzata del popolo Rohingya?
Attualmente, più di un milione di rifugiati Rohingya risiede in Bangladesh. Più della metà di tutti i rifugiati, sono bambini (52%) e donne (51%). La maggior parte di loro si è stabilita nei campi profughi di Kutupalong e Nayapara, nella regione di Cox’s Bazar, tra i più grandi e popolati del mondo. L’attuale popolazione di rifugiati rappresenta un terzo della popolazione totale della regione. Circa 600.000 Rohingya invece, sono rimasti nello Stato di Rakhine, dove continuano a subire gravi restrizioni dei diritti e la minaccia continua di ulteriori e feroci violenze.
Senza accesso all’istruzione o al lavoro e senza libertà di movimento, i rifugiati del campo devono fare i conti anche con la povertà, la malnutrizione e l’esposizione alle malattie. I Rohingya nei campi situati in Bangladesh dipendono quasi interamente dagli aiuti alimentari, poiché non possono lasciare i campi. Tuttavia, dal marzo 2023, l’assistenza, di cruciale importanza, da parte del World Food Program ad un milione di rifugiati, è stata ridotta di un terzo, a poco più di 6 sterline al mese o appena 0,21 sterline al giorno (equivalenti a 8 dollari al mese o 0,27 dollari al giorno) a causa di una carenza di fondi.
Proprio in seguito ai recenti tagli all’assistenza alimentare, Save The children ha dichiarato che la salute ed il benessere di oltre mezzo milione di bambini sono in grave pericolo. La diminuzione dei fondi umanitari non ha fatto altro che spingere i rifugiati in un angolo, costringendo molti a rischiare pericolosi viaggi in barca per raggiungere i Paesi vicini come Malesia, Thailandia e Indonesia. Una responsabilità di cui nessuno sembra voler farsi carico.
Se infatti la responsabilità dei crimini contro i Rohingya ricade sulle forze armate del Myanmar, ciò significa che l’intera comunità internazionale è venuta meno alle proprie responsabilità nei confronti del popolo Rohingya.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non ha ancora deferito la situazione in Myanmar alla Corte penale internazionale, nonostante le prove evidenti che testimoniano crimini atroci. Le nazioni sostenitrici di diritti umani non hanno ancora intrapreso l’azione coordinata necessaria per negare alla giunta militare del Myanmar ciò di cui necessita per sostenere i suoi attacchi: denaro, armi e legittimità.
Secondo il diritto internazionale, il genocidio è un crimine internazionale e il suo compimento può far scaturire la responsabilità internazionale dello Stato e la responsabilità penale degli individui autori di atti di genocidio o coinvolti in essi. Nel 1948, questo crimine è stato definito, dall’art.2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio come «Atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso».
Gli attacchi brutali ed ingiustificati contro il popolo Rohingya, mirati a sradicarli dalla loro patria, avvenuti sei anni fa, costituiscono senza dubbio crimini contro l’umanità e genocidio.