Chi sarà il nuovo Presidente degli Stati Uniti? Se lo chiedono già in molti, a poco più di un anno di distanza dalle prossime elezioni presidenziali, previste per il 5 novembre 2024, e a fronte delle gravi tensioni e dei sommovimenti geopolitici caratterizzanti gli ultimi anni: ma nessuno o quasi, fino a mercoledì 23 agosto, avrebbe risposto «Vivek Ramaswamy».
Tuttora non è chiaro in quanti sarebbero realmente disposti a scommettere sul suo nome eppure, all’indomani del dibattito tra i candidati presidenziali del Partito Repubblicano tenutosi nel Wisconsin e andato in onda su Fox News, l’imprenditore trentottenne spicca al fianco dell’attuale governatore della Florida Ron DeSantis come potenziale erede dell’ancora popolarissimo Donald Trump, quest’ultimo favorito dagli elettori repubblicani con ben il 54% delle preferenze, contro rispettivamente il 15% e 8% circa di DeSantis e Ramaswamy.
Lo stesso Trump, forte di un tale solido consenso nonostante, o forse addirittura grazie, la quarta incriminazione federale subita lo scorso 15 agosto in Georgia – con l’accusa di tentata sovversione dei risultati elettorali del 2020 – ha quindi potuto decidere di non presentarsi al dibattito, evitando così di fornire ai propri avversari l’occasione per attaccarlo ma profilandosi quale inevitabile convitato di pietra.
Non è un caso che al centro del fuoco incrociato delle reciproche stoccate sia quindi finito al suo posto proprio Ramaswamy, tra tutti i candidati il più deciso sostenitore dell’ex Presidente e della sua linea politica estremista: lungi dal danneggiarlo, i continui attacchi degli avversari hanno finito per catalizzare l’attenzione del pubblico su di lui – mentre DeSantis, pressoché dimenticato, rimaneva ai margini del dibattito – e per accreditarlo quale valido competitor per i ben più rodati colleghi.
Ma chi è Vivek Ramaswamy?
Candidatosi alle presidenziali nel febbraio 2023, Ramaswamy è nato in Ohio da genitori indiani e ha studiato biologia all’università di Harvard e legge all’università di Yale prima di fondare nel 2014 la Roivant Sciences, fiorente società attiva nel settore delle biotecnologie.
Giovane, con un patrimonio stimato di almeno 600 milioni di dollari e privo di esperienza politica – come sottolineato dagli avversari e particolarmente da Chris Christie, che si è spinto a paragonarlo per inconsistenza a Barack Obama – Ramaswamy si è tuttavia mostrato sicuro di sé e delle proprie idee, oltre che abile nella tenuta del palco.
Cavalcando anziché negando la propria identità di outsider, Ramaswamy si è presentato – anche in quanto millennial – quale alternativa “fresca” al sistema politico vigente (tra le altre cose ha affermato di essere «l’unico a non essere pagato» per stare sul palco) e rappresentante lo spirito e il sogno americano anche per via della propria vicenda personale: i genitori immigrarono infatti dal Sud dell’India e “abbracciarono” lo stile di vita e i valori statunitensi, a partire dall’ideale dell’individuo «self-made».
«A lungo abbiamo avuto politici professionisti nel Partito Repubblicano che sono fuggiti da qualcosa» ha concluso «Adesso è giunto il nostro momento per correre verso qualcosa, verso la nostra visione di cosa significhi essere un americano oggi».
Vediamo ora insieme i punti principali del suo programma politico, così come sono emersi in questa e in altre occasioni pubbliche.
The new American dream
Iniziamo proprio con il sogno americano, che Ramaswamy pone al centro della propria candidatura e afferma di voler rianimare e tenere in vita per i giovani – e per i suoi due figli – anche in uno dei video ufficiali diffusi dal suo profilo: «Questa non è solo una campagna politica, questo è un movimento culturale per creare un nuovo sogno americano per la nuova generazione».
«Io ho un sogno» ripete Ramaswamy. Egli stesso rappresentante – seppur privilegiato – di una minoranza, sceglie di riprendere alla lettera il celebre discorso pronunciato da Martin Luther King il 28 agosto 1963 affermando che negli Stati Uniti gli individui devono poter avere successo «non in base al colore della pelle ma grazie alle qualità del loro carattere e al loro contributo».
Dall’esaltazione dei mitici ideali americani deriva inevitabilmente anche la teoria dell’american exceptionalism: nello stesso video, Ramaswamy definisce gli USA «la migliore nazione al mondo, che il resto del mondo guarda ancora come un esempio».
Intervistato in proposito, egli ha inoltre dichiarato (dal minuto 1:24) che la questione attualmente prioritaria per gli USA è la necessità di «rivitalizzare l’identità nazionale», restaurando i principi di sovranità della legge, libertà di parola e di dibattito, meritocrazia: solo così, rinvigorendo la propria «self confidence», lo Stato e i cittadini che lo compongono potranno risollevare l’economia e riaffermare la propria «leadership globale».
Il popolo americano: da molti uno
Perché, in fin dei conti, tutti gli statunitensi credono in quegli stessi «principi fondamentali», o ideali, che fecero l’America grande un tempo, che le permisero di consolidarsi durante la Guerra d’Indipendenza, di riunificarsi a seguito della Guerra Civile, e che dovrebbero costituire ora le radici vive del nuovo – e allo stesso tempo originario – sogno americano.
Se, nel suo discorso della vittoria, l’attuale Presidente Biden dichiarò di voler essere «un Presidente che non ambisce a dividere ma ad unire», Ramaswamy sostiene invece che non esiste alcuna frattura – politica, etnica, economico-sociale – entro il popolo americano: tali presunte divisioni non sarebbero altro che l’arma utilizzata dall’attuale amministrazione per concentrare nelle proprie mani quanto più potere possibile (secondo una logica di «divide et impera»).
I cittadini avrebbero insomma dimenticato di essere, al di là delle differenze, «uguali, in quanto americani». E proprio a loro, Ramaswamy ribadisce lo slogan ufficiale degli USA: «E pluribus unum», da molti uno.
Diversi ma non troppo: anti-covidism, anti-climatism, anti-wokeness
Se qualche differenza è ammessa, il suo progetto politico non include alcuno spazio per quelle che definisce «nuove religioni secolari»: a partire dal cosiddetto «covidism» – neologismo che dovrebbe indicare l’eccessiva paura del COVID-19 e la conseguente estremizzazione delle politiche di contenimento – al «climatism» – cioè l’ossessione per l’attivismo climatico e per le politiche green – fino all’ «ideologia gender e woke».
Tutte armi della «sinistra», a parere di Ramaswamy, utilizzate per indurre il popolo americano in una «schiavitù psicologica»: gli individui verrebbero cioè erroneamente convinti di essere influenzati nella propria identità, progettualità futura e libertà di espressione da «etnia, genere e orientamento sessuale».
In un’altra intervista, il politico ha affermato (dal minuto 3:24) che «La wokeness è un sintomo di quella profonda crisi dell’identità nazionale» e includerebbe insomma tutte le succitate ideologie caratterizzate da «religiosità», ossia radicalità e intolleranza verso il libero pensiero: un atto diretto contro la vittimizzazione, il politically correct e in generale il messaggio secondo cui l’America sarebbe «un brutto posto» in quanto Paese spietato che non si fa remore di «causare la morte delle persone».
È interessante notare infine che, durante il dibattito tra i candidati repubblicani, Ramaswamy è stato l’unico a sostenere apertamente che «Il cambiamento climatico è una truffa».
Pieno sostegno a Donald Trump
«Se l’ex Presidente Donald Trump verrà dichiarato colpevole in tribunale, continuerete a sostenerlo come candidato del vostro partito?».
A questa domanda diretta, posta durante il dibattito del 23 agosto dal giornalista e moderatore Bret Baier, solo i candidati Asa Hutchinson e Chris Christie hanno opposto il proprio diniego. Tuttavia, nessuno ha osato contestare all’ex vicepresidente Mike Pence (egli stesso candidato presidenziale) di non essersi opposto alla convalida dei risultati elettorali del 2020 – cioè alla vittoria dell’attuale Presidente Joe Biden – in quanto, per usare le parole di DeSantis, all’epoca egli fece «il proprio dovere» in qualità di Presidente del Senato.
Nessuno, eccetto Ramaswamy:
intervistato altrove, egli si era del resto già spinto ad affermare che il 6 gennaio 2021 – data dell’assalto dei Trumpiani contro Capitol Hill – Pence si sarebbe lasciato sfuggire «un’occasione di eroismo».
Proprio a questo proposito i due si sono scontrati in un testa a testa durante il dibattito: mentre Ramaswamy ha espresso la propria assoluta ammirazione per Trump, definendolo «il miglior presidente del XXI secolo», Pence ha dichiarato che, facendo pressioni affinché rigettasse i voti legittimamente espressi, Trump gli chiese di fatto di «porlo al di sopra della Costituzione».
Successivamente incalzato dal giornalista George Stephanopoulos sul perché del sostegno da lui espresso nei confronti di Trump persino nell’eventualità di una sua condanna, Ramaswamy ha infine negato la validità dei reati contestati all’ex Presidente, a suo parere vittima delle «persecuzioni politiche» messe in atto dall’attuale amministrazione statunitense contro i propri oppositori.
Ramaswamy si è d’altro canto mostrato particolarmente critico nei confronti dell’attuale amministrazione ed ha più volte sostenuto (dal minuto 2:17) una teoria complottista secondo la quale «le persone che vengono elette» non «governano realmente», sostituite da una tentacolare classe politica di natura «manageriale e burocratica»: quest’ultima è stata inoltre definita (dal minuto 1:10) un «cancro nazionale, che sta metastatizzando nel settore privato».
Realismo nixoniano per la nuova Guerra Fredda…
Dalla fallimentare ritirata statunitense dall’Afghanistan – con la conseguente riaffermazione al potere del regime talebano – alle crescenti tensioni politico-economiche con la Cina di Xi Jinping fino al difficile posizionamento della NATO a fronte dell’invasione russa in Ucraina, gli Stati Uniti di Joe Biden non hanno avuto vita facile.
Per affrontare la «nuova Guerra Fredda», Ramaswamy propone il recupero del cosiddetto «realismo nixoniano», riassumibile nella formula propria del modello groziano di convivenza internazionale secondo cui ognuno dovrebbe badare esclusivamente «ai propri interessi» e, di conseguenza, alla propria «difesa nazionale» (dal minuto 20:45).
Da tale principio dovrebbe conseguire tra l’altro la cessazione di ogni sostegno a Taiwan, che la Cina intenderebbe riannettere al proprio territorio nazionale entro il 2049: Taiwan dovrà insomma imparare a difendersi da solo, non prima però che gli Stati Uniti abbiano reciso la propria dipendenza economica e tecnologica. A tal proposito Ramaswamy promette di realizzare, se eletto ed entro i soli 4 anni di mandato presidenziale, la piena autosufficienza degli USA in quanto a produzione di semiconduttori – attualmente forniti massicciamente proprio da Taiwan.
…e stop all’appoggio politico-militare all’Ucraina
«Non combatteremo le guerre di altri […] e il mio primo obiettivo come Presidente degli Stati Uniti sarà quello di porre fine alla guerra in Ucraina, con termini che avvantaggino gli interessi americani» (dal minuto 21:48).
Nel 1972 Nixon si recò in Cina con la precisa strategia di spezzare l’allineamento di quest’ultima con l’allora URSS, convincendo Mao Zedong che fosse più conveniente puntare alla reciproca convivenza degli Stati cinese e americano e, soprattutto, dei rispettivi interessi; allo stesso modo, Ramaswamy vorrebbe ora persuadere Vladimir Putin ad «abbandonare l’alleanza militare con la Cina», nonché a «ritirare le armi nucleari da Kaliningrad e la presenza militare nell’emisfero occidentale», in cambio della promessa statunitense di non ammettere l’Ucraina nella NATO (dal minuto 26:00).
In sintesi: così come l’unico nemico statunitense durante la prima Guerra Fredda fu l’URSS, e non la Cina comunista, l’unico nemico statunitense oggi, durante la seconda Guerra Fredda, è la Cina, non la Russia di Vladimir Putin (contro il quale Ramaswamy non muove alcuna accusa).
Proprio in merito alla proposta di ritirare il proprio appoggio all’Ucraina, per fare «gli interessi degli Stati Uniti», Ramaswamy è stato attaccato dalla candidata repubblicana Nikki Haley.
Immigrazione? Solo dalla «porta principale»
In quanto a flussi migratori Ramaswamy assume una posizione netta: no all’immigrazione illegale, sì alla difesa militare dei confini, la cui recente cattiva gestione non rappresenterebbe altro che l’ennesimo sintomo della profonda crisi vissuta dagli Stati Uniti.
Egli stesso figlio di persone migranti non può del resto negare la validità di una forma legale di immigrazione, da basarsi però su criteri selettivi di tipo «meritocratico», che valutino aspetti quali il sentimento di lealtà e appartenenza al Paese nutrito dalle persone migranti nonché il loro livello di istruzione e status economico.
Il modello ideale sarebbe dunque, ancora una volta, quello incarnato dalla sua stessa famiglia: cioè quello di un’immigrazione condotta attraverso la «porta principale» e concessa solo ad individui in grado di fornire un proprio utile contributo alla nazione di accoglienza e di risollevarsi dalle proprie ceneri, senza fare del “vittimismo”.
Sì alle armi, per tutti
Ultimo ma non meno importante: il diritto a possedere armi, inteso quale elemento irrinunciabile della libertà degli individui, in attuazione del Secondo emendamento alla Costituzione. L’emergenza sparatorie e violenze non si risolverebbe insomma togliendo i fucili alle persone ma curandosi maggiormente della loro salute mentale, secondo quanto sostenuto da Ramaswamy lo scorso aprile, in occasione del forum della National Rifle Association Institute for Legislative Action.