La guerra in Yemen, iniziata da ormai 8 anni, si è trasformata nella peggiore catastrofe umanitaria in corso. La pandemia e la guerra in Ucraina hanno causato ulteriori danni alla popolazione yemenita, già devastata dal conflitto.
Dal 2015, le Nazioni Unite stimano che oltre 370.000 yemeniti sono morti a causa del conflitto: di questi, il 60% sarebbe morto per cause non direttamente legate a combattimenti e bombardamenti, bensì per mano dagli effetti della guerra, in particolare per la carenza di cibo e acqua potabile, oltre che il completo collasso del sistema sanitario.
Circa il 60% dei quasi 30 milioni di yemeniti ha bisogno di aiuti umanitari e oltre il 16% della popolazione è a rischio malnutrizione.
Inoltre, il conflitto nello Yemen ha avuto un grave impatto sull’economia del Paese, causando instabilità economica, limitando le importazioni e aggravando i disastri naturali. L’economia continua a deteriorarsi, con perdite di mezzi di sussistenza e il costante aumento dei prezzi delle materie prime.
La scarsità di cibo, acqua potabile, servizi igienico-sanitari e assistenza sanitaria, così come la diffusione di epidemie massicce di colera e difterite, hanno aggravato le condizioni di vita dei civili e privato le famiglie dei bisogni primari.
La pandemia ha contribuito ad aggravare ulteriormente la situazione del Paese, poiché il sistema sanitario, già al collasso dal tempo, non è stato in grado di far fronte ai malati di COVID-19, causando migliaia di morti.
Attualmente, un altro enorme problema in Yemen è l’approvvigionamento alimentare, fortemente ostacolato dalla guerra in Ucraina, poiché l’80% del grano russo e ucraino viene acquistato dalle Nazioni Unite per essere distribuito nei paesi più poveri, incluso lo Yemen.
Il conflitto in Ucraina appesantisce ulteriormente i già complicati procedimenti di approvvigionamento alimentare, che nel corso degli anni sono stati ostacolati dalla coalizione dell’Arabia Saudita, la quale ha più volte rallentato o bloccato gli aiuti umanitari che arrivavano via mare.
Infatti, l’Arabia Saudita ha sfruttato e manipolato il contenuto della risoluzione 2216 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che, il 14 aprile 2015, ha stabilito un embargo sulle armi nei confronti del gruppo armato Houthi e delle forze fedeli all’ex presidente Saleh, dando quindi la possibilità all’Arabia Saudita di ispezionare e autorizzare l’ingresso di ogni nave in arrivo in nello Yemen.
Pochissime navi ricevono tale autorizzazione: molte sono in ritardo, negate o deviate. Servendosi della risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e attraverso una varietà di restrizioni normative, per lo più arbitrarie, l’Arabia Saudita ha attuato una misura ostruttiva, impedendo l’ingresso di aiuti umanitari nel Paese.
Questi sono solo alcuni esempi delle catastrofiche conseguenze di questa interminabile guerra. Per far fronte agli strascichi del conflitto, è altrettanto importante comprenderne le radici più profonde.
La genesi del conflitto in Yemen è estremamente complessa: nonostante i due principali schieramenti siano da un lato il governo di Hadi – salito al potere nel 2011, quando Saleh rinunciò all’incarico a causa delle rivolte – e dall’altro gli Houthi, sin dallo scoppio della guerra lo Yemen è stato campo di battaglia per le élite politiche di Arabia Saudita e Iran, agevolate da un Occidente che spesso ha preferito chiudere gli occhi davanti ai terribili crimini attuati dai due Stati ai danni della popolazione yemenita.
Al fine di analizzare in modo più profondo la guerra in Yemen, è utile sfruttare una teoria formulata da John Burton e Edward Azar nella seconda metà degli anni ’80, ovvero la teoria del Conflitto Sociale Prolungato.
Nel campo dell’investigazione per la pace, sono state formulate diverse teorie per l’analisi dei conflitti, volte a far luce sul ruolo che svolgono determinate dinamiche all’interno delle guerre: in particolare, trattano le cause profonde di un conflitto, riconoscendone l’importanza che giocano nell’avviamento di un processo di ricostruzione della società e una pace duratura.
Negli anni in cui nacque la Teoria del Conflitto Sociale Prolungato, la situazione geopolitica cominciava a cambiare considerevolmente, il che implicò anche lo scoppio di nuovi conflitti, con caratteristiche profondamente diverse da quelle che delineano gli scontri avvenuti durante il lungo periodo della Guerra Fredda.
Se prima le guerre avvenivano tra Stati, la fine della Guerra Fredda e del bipolarismo segna l’inizio di un lungo periodo caratterizzato da molteplici scontri interni agli Stati: questo è il punto di partenza della Teoria del Conflitto Sociale Prolungato. Innanzitutto Azar afferma che è necessario analizzare il rapporto esistente tra Stato e gruppi religiosi, etnici e culturali che compongono la società civile: la variabile che Azar definisce “soddisfazione comunitaria”.
Per “soddisfazione comunitaria” si intende che ogni gruppo sociale (etnico o religioso) ha le proprie necessità: nel mondo attuale ci sono moltissime società multiculturali, nelle quali convivono diverse etnie o gruppi religiosi. Molto spesso, l’insieme di istituzioni che compongono lo Stato riflette unicamente gli interessi del gruppo al potere, che ignora apertamente le esigenze del resto della società.
Nel 1990 Saleh, salito al potere nel 1978, portò a termine l’unione indesiderata dello Yemen del Nord e dello Yemen del Sud; manipolando il sistema elettorale raggiunse l’unificazione, nonostante il voto contrario della quasi totalità degli yemeniti del sud.
Dopo l’unificazione, Saleh sfruttò il suo potere per espellere gli yemeniti del sud dagli impieghi pubblici, trascurando le esigenze di un enorme gruppo sociale.
Ricordiamo inoltre, durante gli anni del governo di Saleh, l’emarginazione e la discriminazione del gruppo degli Al-Akhdam (afroyemeniti). Gli Al-Akhdam sono una popolazione dello Yemen di origine africana e rappresentano circa il 13% della popolazione yemenita. Per decenni sono state le prime vittime delle discriminazioni del governo yemenita, vivendo segregati e costretti a svolgere i lavori più umili ai margini delle grandi città, in condizioni disumane.
Infine, il malcontento per il governo di Saleh crebbe anche a causa della forte corruzione e della disastrosa situazione economica dello Yemen: nel 2015, infatti, lo Yemen era il paese più povero del mondo arabo.
In secondo luogo, la Teoria del Conflitto Sociale Prolungato identifica come causa del conflitto la privazione di bisogni umani fondamentali, come il rispetto dell’identità e della sicurezza. L’idea di base è che i gruppi etnici o religiosi privati di questi bisogni cercheranno di soddisfarli attraverso il conflitto.
All’inizio degli anni ’90, in Yemen iniziò a formarsi un’organizzazione fondata dallo sciita Hussein Al-Houthi, che si giovava di ottimi rapporti con i leader delle due realtà sciite in Medio Oriente, Iran e Libano: gli Houthi.
Le rivendicazioni degli Houthi, iniziate all’incirca nel 2004, hanno origine dalla forte discriminazione subita nel tempo: questa minoranza religiosa infatti è stata esclusa per anni dalla ridistribuzione della ricchezza, dalle istituzioni educative, dalle istituzioni mediche e dalla vita politica. La loro ribellione si basa sulla ricerca dell’uguaglianza con il resto della popolazione e sulla rivendicazione dell’autonomia politica e confessionale.
Oltre agli Houthi, diversi gruppi sociali yemeniti, durante il periodo delle cosiddette “Primavere arabe”, hanno portato nelle piazze istanze sociali, alla ricerca di libertà, democrazia e migliori condizioni di vita.
Il terzo punto definito dalla Teoria del Conflitto Sociale Prolungato riguarda sempre il governo e il ruolo dello Stato: Azar ribadisce che negli Stati in cui esiste una monopolizzazione del potere, si arriva alla privazione di bisogni fondamentali di una parte della popolazione e a crisi di legittimità politica. Nel caso dello Yemen, infatti, l’autocrazia di Saleh ha portato alla formazione del gruppo degli Houthi, che ha ottenuto il consenso della popolazione yemenita proprio a causa dell’illegittimità del governo di Saleh.
Infine, secondo Azar è determinante il ruolo dei legami internazionali e regionali, economici o militari, che delineano i rapporti di potere tra i diversi Stati.
A livello regionale, Arabia Saudita e Iran hanno sempre avuto un ruolo di protagonismo. L’Arabia Saudita ha avviato nel 2015 l’operazione “Decisive Storm” dopo la presa del potere da parte degli Houthi: ufficialmente, ha giustificato l’intervento affermando di voler difendere un governo internazionalmente riconosciuto. In realtà, l’Arabia Saudita non poteva permettere a un gruppo ribelle sciita di prendere il potere al confine con l’Iran, poiché avrebbe impedito le proprie esportazioni commerciali.
L’Iran, invece, grazie all’alleanza con gli Houthi, è riuscito a guadagnare un significativo spazio strategico nello Yemen con scarsi investimenti finanziari e militari, vendendo armi e fornendo formazione militare agli Houthi.
A livello internazionale, l’intervento degli Stati Uniti attraverso l’invio di armi e mercenari, con il principale obiettivo di contrastare le formazioni jihadiste presenti nello Yemen, ha contribuito al prolungamento del conflitto.
Attualmente in Yemen sono stati fatti dei piccoli passi verso la pace, grazie all’implementazione di una serie di meccanismi di gestione del conflitto.
Questi sono volti ad eliminare momentaneamente la violenza, col fine di iniziare un dialogo tra le parti in conflitto: il principale meccanismo di gestione del conflitto nello Yemen è iniziato il 2 aprile 2022, quando le Nazioni Unite sono riuscite a concordare una tregua di due mesi (successivamente prorogata) creando così un periodo utile per i negoziati e le mediazioni.
Sicuramente, la situazione è ancora estremamente complessa a causa dei rapporti tra Arabia Saudita e Iran: il negoziato nello Yemen deve essere considerato anche come un negoziato diplomatico, poiché è evidente che le relazioni regionali e internazionali hanno una grande influenza sul conflitto. Il processo negoziale si complica ulteriormente, dovendo necessariamente ruotare attorno alla relazione tra Arabia Saudita e Iran per poter auspicare una reale risoluzione.
Segnali di speranza sono arrivati nel gennaio 2023, quando Hans Grundberg, inviato speciale della Nazioni Unite, ha affermato che i negoziati stanno procedendo e vi è intesa su l’allentamento militare, sulle misure per evitare un ulteriore deterioramento dell’economia e, soprattutto, c’è l’impegno da tutte le parti coinvolte per limitare quanto più possibile ulteriori danni alla popolazione yemenita.
Ovviamente si tratta di misure a breve termine: la strada per la ricostruzione dello Yemen e la stabilizzazione della pace è ancora lunga e la comprensione delle radici profonde di questo conflitto è il primo passo da percorrere.
Articolo di Petra El Charif