Il 5 di ogni mese, 5 libri per tutti i gusti: BookAdvisor è la rubrica dove vi consigliamo ciò che ci è piaciuto di recente, tra novità e qualche riscoperta.
Violeta, Isabel Allende (Feltrinelli) – recensione di Michela De Marchi
Violeta di Isabel Allende è una storia personale di cento anni, narrata proprio da Violeta del Valle in prima persona al nipote Camilo. La protagonista nasce in una notte tempestosa del 1920 e fin dal principio la sua vita è segnata da episodi dirompenti, per citarne alcuni: l’eco della Grande guerra; l’influenza spagnola che si diffonde in Cile; la Grande depressione che compromette la vita urbana di Violeta; la Seconda guerra mondiale che irrompe sulla scena portando difficoltà alla ragazza. Peculiare è soprattutto il fatto che nel suo centenario, Violeta, affronta un’altra pandemia, quella moderna del Coronavirus.
La protagonista quindi intreccia nel racconto relazioni private, fatti storici, vicende politiche e aspetti culturali dell’America Latina del XX secolo. Le pagine sono un susseguirsi di tormenti amorosi, momenti di povertà e ricchezza, lutti, attimi di felicità e peculiarità di un Paese che Violeta impererà a vivere nel corso degli anni, nonostante gli sconvolgimenti politici e le difficoltà sociali.
Allende permette di realizzare un viaggio con uno sguardo particolare e una sensibilità non scontata, narrando il tutto con occhi femminili. Leggendo il diario di Violeta si conosce una donna imperfetta, con pregi e difetti, che nel corso della sua vita ha sia compiuto scelte corrette sia commesso molti errori, ma è riuscita ad acquisire una consapevolezza del mondo che la circonda.
Isabel Allende, quindi, è riuscita a creare una narrazione appassionata, ricca e unica nel suo genere, conferendo al lettore un grande insegnamento: l’essere umano non è perfetto e non può esistere senza il proprio passato e i legami che caratterizzano la vita di ognuno di noi.
La custode delle storie a lieto fine, Barbara Davis (Newton Compton Editori) – recensione di Michela De Marchi
Barbara Davis con La custode delle storie a lieto fine crea un racconto caratterizzato da una doppia narrazione in epoche diverse: Seconda guerra mondiale e anni ’80 vengono messi a confronto grazie alle due protagoniste, Soline Roussel e Rory Grant, le quali sono legate da un “filo invisibile” che le unisce
Siamo spiriti affini, io e te. Due sconosciute che condividono un passato comune.
La famiglia di Soline ha gestito per generazioni uno dei più importanti atelier di abiti da sposa di Parigi: le Roussel erano rinomate proprio perché sapevano rendere ogni matrimonio una magnifica fiaba con un lieto fine, ma su di loro gravava una sorta di maledizione per cui le donne della famiglia non potevano vivere serenamente l’amore. Soline inizialmente non crede a questa profezia, ma lo scoppio della Seconda guerra mondiale manda in frantumi le sue certezze e con il cuore spezzato è obbligata a partire per l’America e ricominciare una nuova vita. Il destino le fa conoscere Rory, ragazza addolorata da una tragica perdita e soffocata dalle pressioni della madre.
L’incontro tra le due avviene casualmente: Rory decide di affittare un vecchio stabilimento appartenente a Soline e in un ripostiglio scopre una scatola contenente alcune lettere e un abito da sposa mai indossato. È l’inizio di una straordinaria amicizia che permetterà di svelare alcuni misteri irrisolti sepolti nel passato e darà l’opportunità di intraprendere insieme un nuovo cammino.
La storia è quindi caratterizzata dalle vicende di queste due donne che, seppur diverse, troveranno la forza l’una nell’altra per superare le avversità che incombono nella loro vita e rinascere. La custode delle storie a lieto fine incanta il lettore anche per quel pizzico di magia che si percepisce nelle pagine e spinge a credere nell’esistenza delle seconde possibilità. La domanda di base del libro è: nel periodo più buio della nostra vita, c’è ancora speranza per un lieto fine?
Verranno dalle pianure, Giovanni Pizzigoni (Mondadori) – recensione di Jessica Rodenghi
È vero che l’Ucraina sta per invadere la Russia?
Questa frase potrà sembrarvi strana, ma nel mondo del thriller fantapolitico di Giovanni Pizzigoni ha tutto un senso. L’Ucraina era negli anni ’90 sotto il controllo russo, poi fu la prima a ribellarsi al potere imposto, ma ora è un Paese corrotto, nelle mani di pochi oligarchi che detengono il potere e le armi più potenti. Tecnologie, armamenti, idrocarburi: tutto questo viene scambiato tra la Federazione Europea e l’Ucraina, rendendo il commercio sempre più necessario e difficile da cessare. La situazione, quindi, è come la conosciamo noi, soltanto i ruoli vengono capovolti. È l’Ucraina a invadere la Russia, a imporre un regime, a distruggere la vita dei civili e dei militari. Un punto di forza è la narrazione dagli occhi di diversi personaggi: attraverso vari filoni si ricostruisce la storia delle persone, che è la meno considerata quando si tratta di raccontare i fatti.
Tendenzialmente si presentano le imprese della nazione, di un generale, di un gruppo armato, ma molto poco traspare della psicologia degli agenti in atto. In questo romanzo si toglie il velo che ci permette di credere che, in fondo, delle guerre vicine o lontane che siano, ci può interessare finché fanno il nostro interesse fanno notizia. In questo romanzo ci sono persone comuni, persone straordinarie, persone che devono fare delle scelte difficili, persone che lottano e persone che fuggono. Le loro storie viaggiano veloci, grazie ad uno stile intraprendente, dinamico, che suscita agitazione in chi legge. Non è cosa da poco riuscire a suscitare quell’ansia che poi spinge a rimanere svegli fino a notte tarda per scoprire come va a finire una vicenda.
L’autore è anche estremamente preciso sui dettagli, ogni arma e ogni riferimento a battaglie è puntuale e veritiero, conferendo al racconto quell’aura di verosimiglianza che ci fra tremare le ossa nei punti più critici, perché sentiamo che in fondo i personaggi del libro sono più simili a noi di quanto crediamo.
È un testo di cui si ha bisogno, in un momento storico in cui le notizie escono dalle prime pagine e diventano una cornice accessoria, fa riflettere sul ruolo che abbiamo come interlocutori dei massacri: siamo dispost3 ad ascoltare o chiuderemo il libro, mentre l’Ucraina invade la Russia? Siete pront3 ad appassionarvi alle imprese comuni di gente disperata, con il panico che preme il grilletto e con un rivolo di sangue che annebbia la vista?
Mal di Libia, Nancy Porsia (Bompiani) – recensione di Angela Perego
Tante volte mi sono sentita dire che sono coraggiosa, è questo che si dice in genere di una giornalista donna che lavora in zone di crisi o di guerra, mentre i colleghi uomini sono “competenti”. Io invece sono donna ma non sono coraggiosa, sono solo una giornalista che si occupa nel modo più professionale possibile di alcuni territori, studiandoli prima e vivendoli dopo.
Nancy Porsia arriva a Tripoli nel 2011, due settimane dopo la morte di Muammar Gheddafi, con l’intenzione di raccontare i luoghi e i protagonisti di una rivoluzione attraverso la quale molti giovani libici speravano di essersi finalmente lasciati alle spalle quarant’anni di dittatura e oppressione. Il governo della nuova Libia, però, fatica a trovare una mediazione con le ex brigate rivoluzionarie, che non depongono le armi e anzi si moltiplicano. Violenza e corruzione continuano a essere all’ordine del giorno, molte persone cercano di arricchirsi sfruttando il vuoto di potere in cui è scivolato il Paese; a poco a poco, la rivoluzione del 2011 si trasforma in guerra civile.
Ad assistere a questi mutamenti e a tutto ciò che ne conseguirà sarà la stessa Porsia, che si ritroverà sempre più legata a un Paese inizialmente difficile da decifrare, ma di cui imparerà a leggere la complessità, e che con il tempo arriverà a considerare casa propria. Mal di Libia, il suo ultimo romanzo, non si limita dunque alla narrazione e all’analisi delle vicende e dei giochi di potere che hanno segnato il Paese negli ultimi dodici anni, ma finisce per rispondere ad alcune ingombranti domande su che cosa significhi essere una giornalista donna che lavora in zone di guerra, e soprattutto su che cosa significhi fare informazione libera e indipendente da una terra tormentata come la Libia.
Con grande sincerità, senza nascondere alcuna delle proprie fragilità né fare mistero delle difficoltà che questa professione porta con sé, Porsia descrive anche i momenti più bui degli anni trascorsi in Libia come giornalista: il timore per la propria vita quando ci si trova sulla frontline; la solitudine che si prova nei momenti di maggiore crisi, quando si è gli unici a non aver ancora abbandonato il Paese e diviene rischioso persino lasciare la propria stanza d’albergo; la sensazione di non appartenere più né al proprio Paese d’origine, né a questo nuovo, travagliato Paese che si è scelto di raccontare e persino di chiamare casa; la sensazione di non trovarsi mai al sicuro, che toglie il sonno e l’appetito; infine, lo stupore di scoprire errate persino le proprie più solide convinzioni, tanto da arrivare a dire: Per un po’ smetterò di interrogarmi sul senso delle parole, il loro significato e il loro valore. Ormai non mi fido più di quelle che ascolto e di quelle che io stessa pronuncio. Le trovo tutte sciatte, imprecise, sfocate.
Si tratta, insomma, non solo di un’opera in cui confluisce lo straordinario lavoro giornalistico e d’inchiesta svolto da Nancy Porsia in un arco temporale amplissimo e complesso – dalla morte di Gheddafi alla guerra contro Daesh, sino ad arrivare alla firma del Memorandum d’intesa tra Italia e Libia del 2017, raccontando i momenti più tragici della crisi migratoria, il ruolo dei trafficanti e le condizioni nelle carceri libiche – ma anche del racconto di un preciso sentimento di disillusione e nostalgia: il Mal di Libia, appunto.
Un fardello di amore e pena per questa terra ostile con le sue figlie, i suoi figli e i poveri disgraziati che la attraversano e, allo stesso tempo, inerme e indifesa davanti alla ragion di stato degli stati altri che nelle acque del Mediterraneo provano a lavare le loro coscienze sporche.
Atti di sottomissione, Megan Nolan (NNE) – recensione di Matilde Elisa Sala
Questa è la storia di una giovane donna che, in prima persona, come una sorta di monologo interiore, racconta la storia della sua vita, composta da una sequenza di atti mancati e scelte sbagliate. La protagonista, di cui non conosciamo il nome, si butta costantemente tra le braccia di uomini diversi, che sia per una notte di sesso, o per una relazione, perché è l’unica cosa che la fa sentire meglio. Tutto fino a quando un giorno conosce Ciara, che pare essere l’uomo dei suoi sogni. La relazione con Ciaran si rivelerà presto estremamente tossica e pericolosa. Quante volte avremmo voluto urlarle: scappa! Eppure, no lei continua imperterrita per anni, convinta di meritarsi un amore così. Sono tantissimi gli atti di sottomissione, ma anche gli atti di disperazione (questa la traduzione letterale del titolo originale), che la protagonista compie nei confronti di sé stessa. Capitolo dopo capitolo, si susseguono immagini sempre più crude e dolorose, che spesso costringono a chiudere di scatto il libro, perché difficili da reggere.
Vengono infatti toccati temi come autolesionismo, abuso di alcool, assunzione di droghe, e immagini di rapporti sessuali molto spinti, nonché anche un atto di stupro. La protagonista non ci chiede di immedesimarci in lei, tantomeno di empatizzare o di provare pietà. Semplicemente, mette nelle nostre mani la sua storia, la storia di una persona che affronta i suoi dolori e i suoi demoni, cercando pian piano di salvarsi.
Da noi già consigliato tra i libri più «vulcanici» del 2021, Atti di sottomissione è tutt’ora una bella, seppur dolorosa, riscoperta. È un romanzo che tenta di farci capire che nonostante tutto, magari col tempo, c’è sempre la possibilità di trovare la propria via d’uscita.