Del: 18 Ottobre 2023 Di: Beatrice Lanza Commenti: 0
Danni alla salute (dell’eco- nomia): il decreto anti-CBD Oppure L’unica cosa stupefacente è l’inutilità del decreto anti-

“Le droghe fanno male tutte. Non ci sono distinzioni sensate da questo punto di vista”. Queste le parole pronunciate il 26 giugno scorso dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, mentre si assumeva l’impegno di lottare contro il problema della dipendenza in occasione della Giornata Mondiale contro le Droghe. La posizione di questo Governo sugli stupefacenti è stata più e più volte chiarita, ma è solo di recente che il ferreo principio “le droghe fanno male tutte” è stato applicato normativamente. O meglio, questo è ciò che appare di primo acchito.

Il 21 agosto di quest’anno il ministro della salute Schillaci ha emanato un decreto che ne ripristina uno precedente dello stesso dicastero, quando alla sua guida c’era Roberto Speranza. Il decreto di Speranza, risalente al 2020, aveva modificato l’elenco delle sostanze stupefacenti e psicotrope, inserendo nella tabella dei medicinali le composizioni per somministrazione ad uso orale di cannabidiolo (“CBD”) ottenuto da estratti di Cannabis. In parole povere, da quel decreto ogni prodotto contenente CBD (un principio attivo della Cannabis) assumibile per via orale sarebbe stato vendibile solo dalle farmacie, previa ricetta medica non ripetibile. Questa decisione infastidì più di qualcuno: dai produttori ai venditori, ai consumatori di oli e altri prodotti a base di CBD, così la stessa fu sospesa solo un mese dopo.

Eppure, fast forward di tre anni, la situazione è tornata la stessa di prima. La portavoce del Governo, la sottosegretaria Lucia Albano, ha giustificato il provvedimento asserendo che la motivazione “non è quella di vietare incondizionatamente l’uso del cannabidiolo, bensì l’esigenza di rendere lo stesso sicuro, a tutela della salute pubblica. Ciò in quanto i prodotti contenenti CBD, che è una sostanza farmacologicamente attiva, devono essere ricondotti sotto la vigente disciplina dei medicinali”. Le parole della Albano sembrano  coerenti con la linea del Governo, ed hanno alla base un fine lodevole: tutelare la salute pubblica.

Ma si hanno dubbi se sia questo il reale effetto del decreto.

Tenendo conto che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il CBD è una sostanza non nociva e incapace di causare dipendenza fisica, tanto che la stessa Organizzazione ha dichiarato che il CBD puro non dovrebbe essere oggetto di regolazione internazionale. Sembra che il fondamento stesso del provvedimento sia fallace. Insomma, sebbene il nostro paese abbia inserito il CBD nel regno delle sostanze stupefacenti e psicotrope, il principio attivo in questione non è né stupefacente né psicotropo (a differenza, per esempio, del celebre vino made in Italy o del caffè che beviamo quotidianamente al bar).

Tenendo a mente quest’informazione, può sorgere spontanea una domanda: in che modo limitare fortemente la vendita di prodotti a base di CBD tutela la salute degli italiani? Pur tenendo buona (per pura ipotesi e senza tenere conto dell’autorevole opinione dell’OMS) la teoria secondo cui tale principio attivo sarebbe dannoso, dobbiamo considerare che in ogni caso il Governo italiano non ha il diritto di limitare le importazioni di prodotti europei considerati non nocivi. Fra i quali figura, appunto, il cannabidiolo.

Ciò significa che: mentre ai produttori italiani non sarà più consentito mettere i propri prodotti in commercio nei punti vendita, a quelli stranieri ciò non potrà essere impedito.

La Corte di Giustizia dell’UE è stata chiara in merito: gli Stati membri non possono vietare la commercializzazione del cannabidiolo nei propri territori qualora esso sia legittimamente prodotto in altri Stati membri (sentenza 19.11.20, CGUE). I divieti nazionali potrebbero venire giustificati soltanto da obiettivi di tutela della salute pubblica, come nel caso in esame, ma il giudice nazionale prima di applicare la legge restrittiva della libera circolazione deve valutare la sua fondatezza e proporzionalità sulla base di una valutazione scientifica del rischio e non di opinioni o considerazioni ipotetiche. È proprio sull’assenza di fondatezza e proporzionalità che si fonda il ricorso presentato al TAR del Lazio dagli imprenditori del settore, ricorso accolto che si è tradotto in una sospensione del decreto fino al 24 ottobre 2023.

Insomma, più che prevenire un danno alla salute pubblica sembra che il ministero stia favorendo un danno al made in Italy, la cui tutela è in teoria un cavallo di battaglia dell’attuale Consiglio dei Ministri. Il decreto del ministro Schillaci potrebbe inserirsi nel solco dei provvedimenti che sembrano avere più uno scopo di presa di posizione che di effettivo intervento strutturale nei settori di riferimento. La premier dichiara la linea dura contro le droghe, ma poi il Ministero della salute si limita a complicare gli affari di un settore giovane dell’economia nazionale, che attualmente ha un fatturato di circa 200 milioni di euro e occupa più di 10 mila dipendenti. L’ambiguità del provvedimento, oltre che l’assenza di un piano più completo e ragionato sul problema degli stupefacenti (quelli veri), suscita dunque qualche perplessità. C’è quantomeno da chiedersi: se “le droghe fanno male tutte” e  se “dobbiamo tutelare tutti i prodotti made in Italy”, perché è legale e decisamente sponsorizzato il vino made in Italy (che è a tutti gli effetti una droga) e invece il CBD made in Italy (che, ormai appare ridondante dirlo, non è una droga) è osteggiato e demonizzato? Ai lettori la sentenza.

Beatrice Lanza
Amo creare playlist per ogni situazione e inventare teorie sociologiche di sana pianta. Le storie raccontate bene sono da sempre una delle mie cose preferite. Nel tempo libero studio giurisprudenza alla Statale.

Commenta