Il conflitto tra Israele e Hamas sta in questi giorni ricevendo un’ampia – se non esclusiva – copertura mediatica: ne parlano i nostri giornali, i servizi televisivi su ogni canale, i social media. A non avere però sufficiente copertura mediatica sono le condizioni di grave pericolo, se non di diretta repressione, in cui versano i reporter che intendono fare giornalismo sul campo, in Palestina.
Sono già almeno 29 i giornalisti rimasti uccisi nel corso del conflitto,
secondo l’ultimo conteggio rilasciato lo scorso venerdì dal Committee to Protect Journalists (CPJ), organismo internazionale che da tempo si batte per protezione e libertà di stampa. In totale, sono state accertate le morti di 24 giornalisti palestinesi, 4 israeliani e un libanese, in maggioranza vittime di attacchi aerei provenienti dal territorio israeliano.
Altri 9 sono stati feriti e altrettanti sono ritenuti dispersi o detenuti, senza contare che anche le loro famiglie sono in pericolo: Wael Dahdouh, caporedattore dell’ufficio di corrispondenza araba dell’emittente Al-Jazeera, ha perso tutta la sua famiglia in un bombardamento israeliano sul campo profughi di Nuseirat.
Oltre al pesante tributo che il conflitto ha comportato per i civili della regione, l’attacco a Gaza si è presto rivelato letale per molti giornalisti da quando la Commissione ha iniziato il suo monitoraggio nel 1992. L’ultima volta che la stampa ha affrontato un tale pericolo in Israele è stato durante la seconda intifada dei primi anni 2000, quando più di 4.300 persone sono morte nel corso di 4 anni di combattimenti, tra cui 13 giornalisti (escludendo i dispersi).
Inoltre, vari membri di BBC, Reuters, Al-Araby TV e dell’emittente qatariota Al Jazeera (uno dei principali media outlets che documenta le notizie in area arabo-mediorentale) hanno segnalato ostacoli e deliberate ostruzioni al loro lavoro da parte di polizia ed esercito israeliani.
Lo scorso lunedì 23 ottobre, il giornalista palestinese Roshdi Sarraj, regista e co-fondatore di Ain Media, è stato ucciso in un attacco aereo israeliano a Gaza.
La sua morte è avvenuta cinque anni dopo l’uccisione dell’altro co-fondatore della compagnia, Yaser Murtaja: dopo aver inizialmente assicurato che sarebbe stata aperta un’indagine sul decesso di quest’ultimo, i funzionari israeliani hanno in seguito sostenuto che Murtaja fosse stato un militante di Hamas, affermazione smentita sia dalla famiglia che da amici e colleghi.
«Con l’uccisione di Roshdi, Ain Media perde un’altra parte preziosa della sua anima. Nel 2012, Yasser e Roshdi hanno lavorato insieme a un documentario fotografico sulla vita quotidiana nella Striscia di Gaza, non sulla morte. Gaza è vita. Roshdi e Yaser sono la vita: hanno dato voce al popolo di Gaza, ai loro sorrisi, alle storie chiuse nella paura», recita la dichiarazione rilasciata sui social dalla compagnia.
La morte di Sarraj evidenzia i rischi che corrono al momento i giornalisti con sede a Gaza, con le maggiori preoccupazioni per freelance e giornalisti fotografici, perché non solo mancano del supporto tradizionale di una redazione, ma a causa della natura stessa del loro lavoro sono costretti ad avvicinarsi il più possibile al pericolo.
Con questa dichiarazione potrebbe sorgere il dubbio che il rischio faccia in fondo parte del lavoro e che non sia in corso, effettivamente, un attacco deliberato verso membri di organizzazioni mediatiche.
Così sostiene anche John Kirby, portavoce ufficiale del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, che due giorni fa in risposta alla giornalista Kimberly Halkett ha affermato di non aver visto «alcuna evidenza che Israele stia perseguitando giornalisti […] solo perché stanno cercando di raccontare un evento». La stessa Halkett aveva in precedenza rivelato le richieste avanzate alla sua troupe dal Segretario di Stato Blinken di attenuare la copertura mediatica nei territori occupati.
Tuttavia, è bene ricordare come queste morti e scomparse non si siano mai limitate all’attuale mese di conflitto:
giusto l’anno scorso, l’esercito israeliano ha dato permesso a una truppa di suoi soldati di aprire il fuoco su Shireen Abu Akleh di Al Jazeera; al momento della morte, indossava un casco e un giubbotto con la dicitura “Press”.
Nonostante l’iniziale rifiuto di riconoscere la propria responsabilità (e la riluttanza che ancora l’esercito mostra nell’ammettere l’intenzionalità dell’attacco), questa settimana un report presentato e poi approvato dalle Nazione Unite conclude che «le forze di sicurezza israeliane hanno usato la forza senza giustificazione ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani e hanno intenzionalmente o sconsideratamente violato il diritto alla vita di Shireen Abu Akleh», raccomandando inoltre allo Stato di Israele ci collaborare con le indagini condotte dal Federal Bureau of Investigation e dalla Corte Penale Internazionale. Finora Israele ha rifiutato.
Nasser Abu Bakr, presidente del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi, ha dichiarato a proposito: «Il rapporto delle Nazioni Unite conferma ciò che è chiaro ai palestinesi da anni: che le forze di difesa israeliane usano deliberatamente la forza letale per mettere a tacere e intimidire i giornalisti. Se i cittadini palestinesi devono avere fiducia nel sistema di applicazione della legge internazionale, è vitale che il caso di Shireen sia ascoltato all’Aja».
Al di là dei rischi sul campo, dovuti agli attacchi aerei e ai colpi d’arma da fuoco, questo conflitto ha inoltre esposto i giornalisti a numerosi assalti anche lontano dal fronte.
Il giornalista israeliano Israel Frey, per esempio, ha dovuto lasciare il proprio domicilio e nascondersi: «centinaia di militanti d’estrema destra hanno preso d’assalto la mia casa e hanno cercato di ferire me e i miei figli» ha comunicato in un video diffuso dalla piattaforma Middle East Eye. «Mi hanno inseguito perché ho parlato del bisogno d’empatia e preghiera per i bambini di Gaza che stanno venendo massacrati».
Ma la situazione è ulteriormente aggravata da due fattori: in primo luogo un nuovo regolamento governativo che permette al Ministero israeliano delle Comunicazioni di chiudere a forza le sedi dei media stranieri se c’è una giusta convinzione che questi rechino danno alla sicurezza nazionale. The Times of Israel riferisce in particolare che tale regolamento è stato approvato con l’obiettivo specifico di chiudere Al Jazeera, accusata dal ministro Shlomo Karh di «incitamento contro Israele».
In secondo luogo, il taglio definitivo delle comunicazioni all’interno della Striscia di Gaza disposto dal governo Netanyahu: le società Paltel e JawwaL Telecommunications hanno annunciato che i recenti attacchi aerei hanno distrutto gli ultimi cavi rimasti per avere connessione satellitare.
Impossibilitati i feriti a chiamare un’ambulanza, i dottori si stanno adesso rivolgendo agli stessi reporter per conoscere i luoghi dei bombardamenti: ma anche i giornalisti sono mantenuti all’oscuro a causa della mancanza di Internet.
Chiusa di fatto un’importante finestra sulla realtà del conflitto, manca un modo per ascoltare le voci direttamente coinvolte nella guerra. È giusto quindi chiedersi: come verrà riempito questo crescente vuoto informativo?