Del: 25 Ottobre 2023 Di: Angela Perego Commenti: 0
Le parole contano. Come Israele parla dei palestinesi

Lo scorso 13 ottobre, a distanza di una settimana dall’interruzione delle forniture di elettricità e acqua nella Striscia di Gaza da parte di Israele, un reporter di Sky News ha posto all’ex Primo Ministro Naftali Bennett una domanda doverosa: con l’assedio totale messo in atto in risposta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, che cosa ne sarà dei neonati che si trovano nelle incubatrici della Striscia?

Dall’altro lato della telecamera la risposta è violenta, anche per il tono utilizzato da Bennett: «Davvero stai continuando a chiedere dei civili palestinesi? Che problemi hai? Non hai visto che cosa è successo? Stiamo combattendo dei nazisti. […] Non fornirò elettricità o acqua ai miei nemici». Il 22 ottobre, l’Unicef ha fatto sapere che, a causa della scarsità di combustibile – che Israele si rifiuta di ricomprendere nei già largamente insufficienti aiuti umanitari introdotti nella Striscia attraverso il valico di Rafah – sono a rischio le vite di 120 neonati bisognosi del supporto di un’incubatrice.

Quelle di Bennett, però, non sono le uniche dichiarazioni rilasciate in questi giorni da esponenti politici o militari israeliani in totale spregio del diritto internazionale

– il quale, all’art. 33 della Quarta Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di guerra, vieta le pene collettive, vale a dire qualunque punizione indirizzata non al responsabile di un’infrazione, ma ad un gruppo più ampio. Lampanti sono le dichiarazioni riportate da Middle East Eye, che in un proprio articolo ha denunciato la retorica incendiaria e disumanizzante utilizzata da Israele, nonché il fatto che, negli ultimi giorni, questo abbia più volte fatto espresso riferimento a punizioni collettive da perpetrare nei confronti dei palestinesi, senza fare alcuna distinzione tra civili e combattenti.

Per fare un esempio, Ariel Kallner, rappresentante del partito Likud nel parlamento israeliano, proprio il 7 ottobre aveva pubblicato un post su X invocando una nuova Nakba: «In questo momento, un obiettivo: Nakba! Una Nakba che metterà in ombra la Nakba del ‘48. Nakba a Gaza e Nakba a chiunque osi unirsi! La loro Nakba, perché, come nel 1948, l’alternativa è chiara».

Ricordiamo che il termine “Nakba”, che in arabo significa “catastrofe”, viene utilizzato per indicare l’espulsione forzata di quasi un milione di palestinesi, perpetrata dai sionisti nel 1948 per assicurare la creazione di uno Stato di Israele.

Ricordiamo inoltre che l’art. 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, ratificata anche da Israele nel 1951, vieta «i trasferimenti forzati, in massa o individuali, come pure le deportazioni di persone protette, fuori del territorio occupato e a destinazione del territorio della Potenza occupante o di quello di qualsiasi altro Stato, occupato o no, qualunque ne sia il motivo», precisando che, in caso di sgombero completo o parziale di una determinata regione per impellenti ragioni militari, la popolazione evacuata dovrà però essere ricondotta alle proprie case al cessare delle ostilità; cosa che non è avvenuta a seguito della Nakba del 1948, tanto che molti palestinesi conservano ancora oggi le chiavi delle case da cui le proprie famiglie furono costrette ad allontanarsi, rivendicando il proprio diritto al ritorno.

«Ho ordinato un assedio completo della Striscia di Gaza. Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto è chiuso. Stiamo combattendo degli animali umani e agiamo di conseguenza» ha affermato il Ministro della Difesa Yoav Gallant, mentre l’ex generale israeliano Giora Eiland ha chiesto che Israele provochi «un disastro umanitario senza precedenti a Gaza», indicando il danneggiamento del sistema idrico come strumento decisivo per il raggiungimento di questo obiettivo.

Non solo Israele, però: anche diversi politici statunitensi hanno invocato una violenza incontrollata su Gaza, tra cui il senatore repubblicano Lindsey Graham, che in un’intervista rilasciata per Fox News ha affermato: «Questa è una guerra di religione. Io sto con Israele. Fate tutto quello che dovete fare per difendervi. Radete tutto al suolo».

Si tratta, insomma, di dichiarazioni in cui si arriva ad invocare espressamente e pubblicamente, senza incontrare alcuna resistenza ma anzi il plauso dei media occidentali, la commissione di crimini di guerra, tra i quali rientrano, appunto, il fatto di «dirigere intenzionalmente attacchi contro popolazioni civili in quanto tali o contro civili che non partecipino direttamente alle ostilità», il fatto di «dichiarare che nessuno avrà salva la vita», nonché il fatto di «affamare intenzionalmente, come metodo di guerra, i civili, privandoli dei beni indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso il fatto di impedire volontariamente l’invio dei soccorsi».

Obiettivi che peraltro Israele non ha dichiarato soltanto a parole.

Mentre scriviamo queste righe è il 24 ottobre e, secondo le stime del Ministero della Salute di Gaza (controllato da Hamas), dal 7 ottobre il numero di palestinesi uccisi è salito a 5.791, anche a causa dell’intensificarsi dei bombardamenti, che tra le giornate di lunedì 23 e martedì 24 ottobre hanno mietuto almeno 700 vittime.

Si stima inoltre che, delle persone uccise, almeno 2.360 siano bambini, mentre quelle rimaste ferite sarebbero 16.297, in un contesto in cui si continua a impedire a un numero adeguato di aiuti umanitari di entrare nella Striscia e in cui si sta mettendo a repentaglio il funzionamento degli ospedali, rimasti privi del carburante necessario per far funzionare i generatori.

Si badi bene: anche Hamas ha commesso delle azioni contrarie al diritto internazionale e che vengono annoverate tra i crimini di guerra, tra cui gli attacchi contro la popolazione civile e la cattura di ostaggi; questi crimini, però, sono stati condannati immediatamente e in modo unanime pressoché dall’intera comunità internazionale. Le immagini dei massacri perpetrati nei kibbutz hanno fatto il giro del mondo, così come i video dei ragazzi e delle ragazze che, mentre si trovavano a un rave party, sono stati colti di sorpresa da Hamas, e delle più di 200 persone prese in ostaggio conosciamo nomi, volti e storie. È invece assordante il silenzio dei media occidentali per quanto riguarda quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza e, parallelamente, in Cisgiordania.

La reazione di Israele manca di proporzionalità e non tiene in considerazione la vita di migliaia di civili innocenti, donne e bambini, sulle cui case si continua a bombardare senza sosta. Si pretende che più di un milione di persone si spostino a sud di un territorio – quello della Striscia di Gaza – che in totale ha una superficie di 360 chilometri quadrati e la cui densità abitativa è superiore a 5.000 persone per chilometro quadrato, invocando una nuova Nakba e dunque facendo intendere che non potranno più fare ritorno. Si impedisce di rifornire la Striscia di carburante, si lascia che a Gaza si sopravviva con soli 3 litri di acqua al giorno per persona, quando quelli necessari al giorno per persona secondo le linee guida dell’Oms sarebbero 100. Si utilizza apertamente un linguaggio disumanizzante e genocida.

Tutto questo sta accadendo sotto i nostri occhi, ma nel completo silenzio dei governi e dei media occidentali, che anzi cercano di negare delle verità storiche e di riscrivere quanto accaduto negli ultimi 75 anni per giustificare delle azioni che non possono essere legittimate neppure se compiute per difendere sé stessi, perché contrarie a quelle regole cui anche i conflitti armati devono sottostare.

In particolare, risale al 14 ottobre l’appello per un cessate il fuoco immediato da parte della relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi, Francesca Albanese.

Quest’ultima ha infatti espresso forti preoccupazioni per il rischio che venga perpetrato un crimine di pulizia etnica ai danni dei palestinesi: «C’è un grave pericolo che ciò a cui stiamo assistendo possa essere una ripetizione della Nakba del 1948 e della Naksa del 1967, ma su scala più ampia – ha affermato Albanese – Ancora una volta, in nome dell’autodifesa, Israele sta cercando di giustificare ciò che equivarrebbe a una pulizia etnica. Qualsiasi continua operazione militare da parte di Israele è andata ben oltre i limiti del diritto internazionale. La comunità internazionale deve porre fine a queste gravi violazioni del diritto internazionale ora, prima che la tragica storia si ripeta».

Il 16 ottobre, invece, il Guardian pubblicava un articolo di Chris McGreal – reporter che si occupò di documentare il genocidio ruandese – dal titolo Il linguaggio usato per descrivere i palestinesi è genocida. Ne riportiamo di seguito uno stralcio:

I Tutsi sono stati degradati a “scarafaggi”, una parola invocata anche da un allora capo delle forze di difesa israeliane per descrivere i palestinesi. Altri leader politici, militari e religiosi israeliani hanno in tempi diversi descritto i palestinesi come “un cancro”, “parassiti”, e hanno chiesto che fossero “annientati”. Sono spesso ritratti come arretrati e come un peso per il paese.

Rispetto al crimine di genocidio, codificato sia all’interno della Convenzione sul genocidio del 1948 che all’art. 6 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, il crimine di pulizia etnica ha dei contorni meno definiti, non costituendo un crimine internazionale indipendente.

Questa espressione venne utilizzata nel 1992 dalla Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite, nell’ambito di una sessione speciale volta all’analisi della situazione dell’ex Jugoslavia, per indicare una serie di politiche finalizzate alla creazione di un’area etnicamente omogenea o pura, costringendo le persone o determinati gruppi ad allontanarsene con l’uso della forza.

La Commissione precisò anche che le pratiche coercitive utilizzate per rimuovere la popolazione civile potevano includere il ricorso a omicidio, tortura, arresto e detenzione arbitraria, esecuzioni extragiudiziali, stupri e aggressioni sessuali, gravi lesioni fisiche ai civili, confinamento della popolazione civile in ghetti, rimozione forzata, sfollamento e deportazione della popolazione civile, attacchi militari intenzionali o minacce di attacchi contro civili e aree civili, uso di civili come scudi umani, distruzione di proprietà, rapina di beni personali, nonché attacchi a ospedali, personale medico e luoghi con l’emblema della Croce Rossa o della Mezzaluna Rossa.

Atti che, insomma, possono coincidere con quelli compiuti al fine di commettere un genocidio, il quale si distingue però dalla pulizia etnica per il fatto di richiedere un cd. dolus specialis, un intento specifico: quello di «distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale».

Questo obiettivo deve poi essere conseguito, affinché si possa integrare la fattispecie di genocidio, attraverso uno qualsiasi dei cinque atti elencati all’art. 6 dello Statuto di Roma:

«uccidere membri del gruppo; cagionare gravi lesioni all’integrità fisica o psichica di persone appartenenti al gruppo; sottoporre deliberatamente persone appartenenti al gruppo a condizioni di vita tali da comportare la distruzione fisica, totale o parziale, del gruppo stesso; imporre misure volte ad impedire le nascite in seno al gruppo; trasferire con la forza bambini appartenenti al gruppo ad un gruppo diverso».

Gli studiosi individuano quindi due diversi obiettivi, che possono essere posti a fondamento dei medesimi atti: nel caso della pulizia etnica, le violenze vengono utilizzate per terrorizzare la popolazione di un dato territorio, costringendola di fatto ad allontanarsene; nel caso del genocidio, invece, la popolazione colpita è costretta a rimanere nel territorio interessato: le viene impedito di fuggire in vista della sua eliminazione.

Come sottolineato in un paper pubblicato dal Centro Studi per la Pace, «la pulizia etnica potrebbe anche essere il primo sintomo di un genocidio: se la popolazione sotto assedio non abbandona l’area interessata, la soluzione potrebbe essere la sua distruzione fisica».

In un periodo buio come quello che stiamo vivendo, ciò che possiamo fare, dunque, è mantenere il nostro sguardo fisso su ciò che sta accadendo in Palestina, cercando di attingere a fonti attendibili e che non siano impegnate nel racconto di una sola parte del conflitto; possiamo ricercare il più possibile quelle voci palestinesi che si sta cercando in ogni modo di silenziare, abbattendo la loro visibilità sui social, chiudendo i loro profili, rimuovendole dalle scalette dei programmi televisivi; possiamo ripercorrere la storia della questione palestinese, di cui il conflitto in corso non è che lo sviluppo più recente, e tenere bene a mente le parole con cui si apre la prefazione alla prima edizione di Dieci miti su Israele dello storico israeliano Ilan Pappé:

La storia si trova al centro di ogni conflitto. Una comprensione veritiera e imparziale del passato offre la concreta possibilità della pace. Al contrario, la sua distorsione e manipolazione non possono che disseminare fallimenti.

Angela Perego
Matricola presso la facoltà di Giurisprudenza, “da grande” non voglio fare l’avvocato. Nel tempo libero amo leggere e provare a fissare i miei pensieri sulla carta.

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