Casa per casa, strada per strada. La politica delle idee. È essenzialmente un libro di idee, quello scritto da Pierpaolo Farina nel 2014. Idee passate e presenti che si intrecciano in un’attenta analisi della figura di Enrico Berlinguer, che ancora oggi vive nell’eredità politica e morale che ha lasciato alla nostra società.
Pierpaolo Farina è anche fondatore di un sito web dedicato a Berlinguer e di WikiMafia – Libera Enciclopedia sulle Mafie. Abbiamo deciso di incontrarlo per conoscere il suo punto di vista sul ruolo che la morale, colonna portante della politica di Berlinguer, riveste nel contesto politico odierno.
L’intervista è stata editata per motivi di brevità e chiarezza.
“La Questione Morale è divenuta oggi la questione nazionale più importante”. Con queste parole Berlinguer fece rientrare nel dibattito politico del 1980 una categoria non politica, ma universale, quella della moralità. Oggi, a distanza di più di quarant’anni, l’etica pubblica, intesa come giudizio morale su dati comportamenti politici, può ancora essere considerata un valido strumento di critica politica?
Certamente. Partiamo dal presupposto che una cosa è la questione morale, che attiene alla sfera della politica e che riguarda eletti ed elettori, una cosa è la questione giudiziaria, che è invece di competenza dei magistrati. Dal punto di vista strettamente politico, se io riconosco il primato della politica, non mi deve interessare se un dato soggetto è stato condannato o meno. Il giudizio politico si forma a prescindere dalle sentenze. Abusare della propria posizione di potere perché si può farlo e si è legittimati a farlo, dal punto di vista penale non è un reato, dal punto di vista del giudizio morale dovrebbe esserlo.
La questione morale si basa, appunto, sul concetto di responsabilità politica di chi governa nei confronti dei cittadini. Oggi, però, questo concetto è stato completamente surclassato da quello di responsabilità giuridica, tanto che alla magistratura è stata affidata quella funzione moralizzatrice che spetterebbe alla politica e ai cittadini. Quali sono le conseguenze di questa tendenza?
Questo è anche quello che diceva Paolo Borsellino nel 1989: “Ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: ‘questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto’. Ma, dimmi un po’, tu non ne conosci di gente che è disonesta, ma non è mai stata condannata perché non ci sono le prove per condannarla?”. Spetta ai partiti, allora, trarre le dovute conclusioni e fare pulizia al loro interno, non alla magistratura. Il problema, però, è che in Italia non si trae mai nessuna conclusione dal punto di vista politico. Inoltre, a furia di relegare alla magistratura una funzione moralizzatrice, molti iniziano a credere che i magistrati siano tutti politicizzati. Si finisce così in un circolo vizioso che non fa altro che alimentare uno scontro istituzionale pericoloso per la tenuta della democrazia.
Nel 2023 la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, finisce sotto indagine da parte della procura di Milano per presunte irregolarità commesse da alcune società a lei collegate, in particolare per falso in bilancio, bancarotta, nonché per truffa aggravata ai danni dello Stato. Al di là della rilevanza penale di queste accuse, è accettabile da un punto di vista morale che un ministro, nell’arco di tempo in cui la sua situazione giuridica rimane sotto esame, continui a ricoprire la sua carica, rischiando di arrecare un danno di immagine così grave alle istituzioni? È possibile, in politica, trovare un punto di equilibrio tra presunzione di innocenza e responsabilità morale?
No, non è accettabile che rimanga in carica. In altri Paesi, infatti, si sarebbe già dimessa. Basti guardare alla Germania: nel 2013 la ministra dell’istruzione Schavan presentò le sue dimissioni perché accusata di aver copiato la tesi di dottorato. In Italia, invece, si aspettano sempre le pronunce della magistratura e nel frattempo il livello di moralità pubblica continua ad abbassarsi.
Quanto al punto di equilibrio tra presunzione di innocenza e responsabilità morale, questo esiste ed è rappresentato dalla sanzione sociale, per cui se tu ti comporti in un determinato modo, vieni isolato dalla società, vieni guardato male. Sarebbero i cittadini, quindi, a dover esigere più moralità da parte dei rappresentanti delle istituzioni. Tuttavia, in una società in cui l’offerta politica, mediatica e culturale è mediamente bassa, l’opinione pubblica finisce per narcotizzarsi, soprattutto di fronte a episodi come l’iscrizione di Berlusconi al Famedio di Milano: se un politico condannato in via definitiva per frode fiscale, che quindi ha frodato lo Stato di cui è stato rappresentante, viene iscritto tra i cittadini benemeriti di Milano, allora non può che formarsi un cortocircuito etico-morale da cui poi diventa difficile uscire.
L’antipolitica dei giorni nostri spesso veste di un populismo demagogico, nasce dallo sdegno morale per gli scandali che coinvolgono i politici e dalla rabbia per le promesse non mantenute dai partiti. Questi sentimenti anti-politici possono forse considerarsi successori della questione morale sollevata da Berlinguer?
A livello politico purtroppo Berlinguer non ha eredi. Sicuramente ci sono partiti, come il M5S, che sui temi della legalità, della lotta alla corruzione e della lotta alle mafie hanno un livello di attenzione più alto rispetto ad altri. Il rischio di questi movimenti anti-politici però è che a furia di enfatizzare gli aspetti di tipo penale e non politico di certi comportamenti, finiscano per perdere di credibilità agli occhi della gente. Se leghi la critica politica all’esito processuale e quindi se iper-penalizzi il dibattito politico, infatti, rischi che ti vada bene solo quando si arriva a condanne in via definitiva.
Un altro problema di questi movimenti anti-politici è che si concentrano solo sull’onestà. Per il M5S basta essere onesti e poi vanno bene tutti. Ma non è così: una cosa è essere onesti, una cosa essere un bravo politico. Un bravo politico è anche onesto, ma non viceversa. Bisogna avere una cultura politica e saper fare politica. Infatti, Berlinguer non diceva che risolvendo la questione morale si sarebbero risolti tutti i problemi; la moralità, secondo lui, era una precondizione per poter fare politica.
Come afferma nel suo libro, “Berlinguer non era un moralista, ma un uomo profondamente morale (…). Agiva perché pensava fosse giusto farlo”. In un contesto politico in cui i partiti faticano a trovare sistemi di valori, principi e idee su cui reggersi e di cui farsi portatori, è ancora possibile per un politico essere morale?
Sì, è ancora possibile. Il fatto che oggi il livello di etica pubblica sia basso non significa che non possa tornare a crescere, dipende tutto da chi fa parte dei partiti. E i partiti alla fine sono associazioni di persone, quindi nel proprio piccolo ognuno potrebbe e dovrebbe dare l’esempio. Se tutti dessero l’esempio, infatti, a partire dalle piccole cose, automaticamente si creerebbe quello spirito critico di massa che sta alla base del cambiamento. È poi necessario essere educati alla moralità, e, visto che oggi le scuole di partito si sono indebolite e ci sono sempre meno luoghi e sezioni dove potersi confrontare, bisognerebbe puntare e investire sull’educazione civica nelle scuole.
Il Partito Democratico fin dalla sua nascita ha voluto essere a tutti i costi un partito di governo. E lo è diventato, sviluppandosi più come uno strumento di potere che come un partito di idee. Dopo la sua sconfitta alle ultime elezioni, però, il Pd quel potere lo ha perso, entrando in una fase di crisi profonda. Si è forse trasformato, anche il Pd, in una di quelle “federazioni di correnti” al servizio di leader carismatici, di cui parlava Berlinguer?
Sì, il Pd è un partito di correnti, ma soprattutto è diventato quello che Berlinguer, in un articolo su Rinascita del 1980, definì come un partito elettoralistico, all’americana, cioè un partito che pensa solo a prender voti, una macchina che si muove solamente in virtù delle elezioni. E così il partito da strumento per raggiungere un ideale diventa uno strumento per avere più potere. Inoltre, mentre la destra alle elezioni va compatta, la sinistra ripetutamente si divide: mentre i “cattivi” si organizzano, infatti, i “buoni” hanno sempre questa tendenza a litigare su chi è più buono rispetto all’altro, finendo così per dividersi. E questo è il grande dramma di tutta la sinistra italiana.
Dall’inizio di questa legislatura, abbiamo assistito a discussioni su dubbie dichiarazioni rilasciate da vari rappresentanti delle istituzioni. In una società in cui viene dato sempre meno peso alle parole, quali sono i limiti morali che un rappresentante delle istituzioni dovrebbe auto-imporsi?
Calvino parlava di una “peste del linguaggio” che a un certo punto si diffonde ovunque e la gente non è più capace di parlare, o meglio, parla male. Questo è quello che è successo con lo sdoganamento di certi modelli televisivi, per cui tutto è lecito: prima, se tu dicevi una parolaccia in televisione, non ti invitavano più, ora se lo fai nessuno dice più nulla. Inoltre, come diceva Carlo Levi, “le parole sono pietre”, quindi se io con le mie parole metto a rischio la libertà dell’altro e ferisco l’altro, allora commetto un atto di violenza, una violenza simbolica, quella che colpisce l’identità delle persone. Chi rappresenta le istituzioni, quindi, prima di rivendicare la libertà di espressione, dovrebbe ricordarsi un principio liberal-democratico di base, cioè che la sua libertà finisce dove inizia quella altrui.