Del: 26 Ottobre 2023 Di: Michele Cacciapuoti Commenti: 0
L'Italia sessualizzata nelle vignette sovraniste

Avendo davanti una panoramica delle vignette politiche italiane di posizionamento più o meno di destra sovranista, può saltare all’occhio una marcata occorrenza della personificazione femminile dell’Italia, ma soprattutto una sua connotazione molto spesso sessualizzata.
È una prerogativa dei disegnatori di destra? C’è un motivo dietro questa tendenza?

Innanzitutto, parlando di vignettisti sovranisti si fa riferimento a quel mondo di artisti satirici dal tratto e anche dalle idee in realtà variegate, già delineato nel 2015 da Mattia Salvia su Vice e nel 2019 da Paolo Mossetti su Wired: a partire dal loro antesignano Alfio Krancic, con un passato nella destra più radicale, passando per autori almeno allora riconducibili a una vicinanza al Movimento 5 Stelle, come Mario Improta o la pagina Vinegars (più a sé stante il caso di Natangelo), per arrivare alle note e più genericamente anti-sistema vignette di Ghisberto.

È di per sé complesso analizzare un tema tanto soggettivo (qual è il criterio per definire l’erotizzazione di una figura? La preminenza dei caratteri sessuali secondari o il contesto?), ma è innegabile la facilità con cui ci si imbatte in questo tipo d’Italia, che sia vestita o svestita (Improta 2020 e 2023).

Il personaggio impiegato da molti di questi artisti è specificamente l’Italia Turrita, una figura risalente alla più antica personificazione della dea Roma ma anche all’iconografia della dea Cibele: come spiega la storica Bazzano, questa donna (incoronata da una cinta muraria che venne poi a rappresentare le varie città) incarnava inizialmente i popoli della penisola alleati ai Romani; divenne allegoria dell’Italia nel Basso Medioevo, nelle parole di chi lamentava il suo asservimento al dominio straniero (la dantesca «serva Italia […] non donna di province, ma bordello»).
Canonizzata esteticamente nel Seicento, cominciò a essere rappresentata nella sua nudità (e spesso ancora come prigioniera dei dominatori) in vignette e dipinti di epoca risorgimentale, sottolinea l’architetta Maioli.

La sua sessualizzazione è databile però a fine Ottocento e inizio Novecento, nel pieno dello stile liberty; l’Italia Turrita fu utilizzata propagandisticamente nella Prima Guerra Mondiale (analogamente, si veda la Trieste prigioniera del 1915), venendo però poi poco impiegata dal regime fascista e nella Prima Repubblica. Ciononostante, se ne trova qualche esempio: dalla Domenica del Corriere nel 1948 e 1953 al Guareschi del 1946 o degli anni Sessanta, fino a un’Italia “pertiniana” del 1985.

Per quanto possa sembrare biunivoco il legame sovranismo-Italia Turrita (la figura è nel simbolo del partito Pro Italia), la sintetica iconicità di questa personificazione le permette di rappresentare il paese nelle vignette di artisti di ogni schieramento: è stata usata da Staino in senso anti-berlusconiano (2014) o anti-grillino (2020), da Mauro Biani contro Renzi (2014, 2021), da Giannelli contro Berlusconi o da Vauro contro Meloni, fino a Zerocalcare che l’ha usata per criticare i rapporti con l’Egitto.

La stessa iconografia dell’Italia Turrita varia di autore in autore, discostandosi dal canone di donna mediterranea con pelle olivastra e capelli più o meno lunghi e neri, descritto dallo studioso M. San Filippo: senza arrivare a versioni volutamente peculiari come quella afro di Biani (2018), si spazia dal biondo (Pillinini, Giannelli) al castano (Staino, Cinzia Leone) fino al rosso di Tartarotti (2021).
Nel panorama sovranista invece, eccetto l’Italia bionda di Colella (2023), prevale lo standard moro.

Interessante elemento di variatio è quello del copricapo che dà il nome all’Italia Turrita: è sin dall’età romana, scrive il numismatico Graziosi, che la cinta muraria viene talvolta semplificata in una corona regale.Questo accade oggi in alcune vignette europeiste (V. Cappello 2022), ma assume un significato di primazia negli autori sovranisti, anche se la casistica sembra limitarsi ad alcune vignette di Improta (l’Italia che si emancipa dall’asse franco-tedesco, o che guida una rivolta contro l’UE).

Il vero elemento distintivo è quello al centro di quest’indagine, l’Italia sessualizzata: frequente nell’universo sovranista, difficilmente rintracciabile al suo esterno (un caso è la vignetta anti-salviniana del 2018 di P. Piccione).


Certo sarebbe una disonesta semplificazione attribuire questa declinazione dell’Italia Turrita a tutte e solo le vignette di destra, magari interpretandola come trasposizione carnale di un intenso amor di patria.

La verità è che ogni artista fa da sé: ci sono autori per cui l’Italia non ha nulla di sessuale (come C. Cadei o K.C. Rigacci) e altri per cui invece è quasi un leitmotiv. I motivi sono i più vari: in alcuni casi (spesso non sovranisti) il quasi-déshabillé dell’Italia è più che altro memore del peplo classico delle statue antiche, o indica soltanto il vessillo tricolore usato come indumento.

Un discrimine cruciale è poi quello dello stile di disegno: ogni artista ha il proprio ed è inevitabile che in una vignetta dal tratto più cartoon (R. Santin 2020) o caricaturale (A. Cemento 2020) vi sia meno spazio per l’accentuazione di certi tratti evidenziati invece, anche involontariamente, in uno stile più naturalistico. Così si spiega come nei disegni di Improta più lontani nel tempo (2017-19) e più stilizzati fosse poca o nulla la sessualizzazione, aumentata dal 2020 con l’evoluzione verso un maggior realismo.

Portata all’estremo, è la differenza fra i Paesi antropomorfi dell’artista Lullindo e le stilizzatissime countryball.

In Ghisberto invece è proprio il caratteristico stile surreale e sporco a implicare l’esplicitezza della raffigurazione (2018).
Altrove l’immagine risulta da una stereotipizzazione della donna italiana “felliniana”, come si vede nell’artista francese Miss Lilou (2015 e 2016), meccanismo d’altronde analogo a quello dell’Italia partenopea nella sopracitata vignetta di Piccione.

La chiave di volta è però il contesto: nella maggioranza dei casi, la sessualizzazione interviene laddove l’Italia è rappresentata come sottomessa o prigioniera, situazione naturalmente deplorata dagli artisti sovranisti. Umiliata, vaccinata, soffocata, scippata da Conte o incarcerata dall’UE, impiccata da Meloni: è l’Italia prigioniera a risultare più svestita, metafora della sua spoliazione. In casi più estremi, le supposte angherie ai danni della «serva Italia» arrivano alla molestia sessuale, come nella vignetta di Pubble su Monti (2021), o persino alla tortura.

A utilizzare molto quest’immagine dell’Italia sin dal 1958 è il periodico conservatore Il Borghese, che oggi sperimenta con un’Europa turrita.

È un topos non a caso menzionato all’inizio parlando dell’Italia dantesca e risorgimentale (ma si pensi ai manifesti democristiani nel 1948): non è una novità che la propaganda e la satira paventino la sottomissione della nazione anche nelle forme di un’aggressione sessuale (fino alla violenza, come in alcune recenti opere filippine) nei confronti della personificazione femminile, dal nome non di rado latineggiante. Ecco allora l’Hispania denudata (1885) e la Britannia aggredita dal demone socialista (1909).

Il tema fiorì molto, in senso spesso razzista, nei due conflitti mondiali (USA 1917, Italia 1944; ma le vittime qui sono donne generiche). Nello stesso contesto bellico, le nazioni personificate videro una sessualizzazione volta anche a sedurre potenziali finanziatori e soldati: si vedano la Columbia americana (1918) o la Britannia anglo-canadese (1917-19), o la Trieste seduttrice del 1915. D’altronde, fu nello stesso periodo e per analoghi scopi che nacquero le pin-up.

Nella satira statunitense odierna, più che Columbia assurgono a emblema nazionale Lady Liberty e Lady Justice: già imprigionate in alcune vignette ostili a Obama, è però dall’epoca di Trump che vengono dipinte come molestate dal presidente (Gertli 2016, Kamensky 2017), rendendo gli scandali sessuali del tycoon veicolo allegorico di una violazione dei principi libertari.
Nei casi più estremi (McKinnon 2018, Kamensky 2019) si è giunti a rappresentare vere e proprie violenze, come del resto anche nei confronti della Lady Justice neozelandese.

Infine, illuminante e confermativo di questa tesi è forse l’archetipo delle personificazioni nazionali femminili, la Marianne francese rivoluzionaria, che ha peraltro influenzato alcune rappresentazioni dell’Italia sul modello di Delacroix o col berretto frigio.


Lo storico Agulhon, nei suoi Marianne au combat (1979) e Marianne au pouvoir (1989), delinea i vari modelli di femminilità rappresentati dalla figura nel corso dell’Ottocento, incluso quello di erotica amante ma anche di prostituta: così, sin dal 1848, veniva denigrata Marianne da reazionari, moderati e poeti come Verlaine (e la mente corre alla Lady Liberty pornostar del 2023). Ancora a fine Ottocento, infatti, la nudità della sua figura era ritenuta radicale tanto quanto il berretto frigio.

È però soprattutto in Les métamorphoses de Marianne (2001) che Agulhon indica nella Prima Guerra Mondiale il momento in cui la figura (come le altre sopracitate personificazioni) prima diventa sentimentalmente l’amante che sprona il soldato, poi viene sessualizzata nei primi nudi integrali (ma la guerra non è l’unico fattore, c’entrano i reflussi dell’art nouveau da Belle Époque).
Non senza rimostranze, Marianne nel secondo Novecento ha subito un’ulteriore sessualizzazione nelle vignette politiche e nelle sculture modellate su attrici ritenute sex symbol, prima fra tutte la molto criticata Brigitte Bardot nel 1969, seguita da opere meno spinte basate su Catherine Deneuve (1985) e Laetitia Casta (1999).

Nelle vignette odierne di posizionamento “sovranista”, ritorna l’immagine di una Marianne prigioniera dei terroristi (Ixène 2020), di Hollande (Miss Lilou 2015) o della presidenza Macron (Zaitchick 2020), ma non mancano molestie e, come con Trump, analogie fra la violenza sessuale e le mosse anti-parlamentariste di Macron. Nemmeno l’antica Marianne prostituita sembra scomparire dalla scena.

Concludendo, non tutti e non solo i vignettisti sovranisti sessualizzano l’Italia Turrita e, fra chi lo fa, i motivi sono diversi; ciononostante è spesso individuabile alla radice il comune denominatore del topos negativo della patria umiliata e sottomessa da vendicare.

Tutto qui? In realtà no, questa declinazione dell’Italia proprio in ambienti nazionalisti può essere intesa anche in termini attrattivi. Dal 2022, T.P. Bettoni raccoglie esempi di moe gijnka (antropomorfizzazione moe, canone giapponese tra il sessuale e l’infantilizzazione kawaii, talvolta etichettata dal suffisso vezzeggiativo -chan): sembra esserci una mascotte per ogni entità, dal partito tedesco AfD alle agenzie di censura, ma in Patria-chan (contributo al progetto di Iconografie) Bettoni si sofferma sulle personificazioni nazionali come l’ucraina Marichka.
L’Italia stessa non è estranea: nel 2018, l’attuale presidente del consiglio ha più volte celebrato una propria Meloni-chan.

Scrive Bettoni:

La vignetta satirica si è evoluta in meme adattandosi ai grotteschi canoni di internet».

In copertina l’illustrazione di Ann-Sophie de Steur

Michele Cacciapuoti
Laureato in Lettere, sono passato a Storia. Quando non sto guardando film e serie od osservando eventi politici, scrivo di film, serie ed eventi politici.

Commenta