C’è ancora domani, il film d’esordio di Paola Cortellesi alla regia, ha portato nelle sale italiane il grande pubblico, registrando, in poco più di dieci giorni, un incasso che supera i 13 milioni di euro, il più alto dopo la pandemia.
La pellicola, una commedia dolceamara nella Roma del 1946, racconta la Storia che ha cambiato le sorti di un’Italia dettata da tradizioni e valori conservatrici e patriarcali.
La Storia, quella che si studia sui libri, si nutre di tante storie di gente comune. Ed è proprio attraverso un’altra storia, quella di Delia, interpretata dalla stessa Paola Cortellesi, e della sua vita spezzata e segnata da sogni mai realizzati, che ci viene servito un piatto freddo e crudo di quello che era la società italiana a quei tempi.
Per richiamare gli anni del dopoguerra, ma soprattutto la produzione cinematografica di pellicole neorealiste dell’epoca, la regista sceglie il bianco e nero. Non è l’unico elemento che riprende il passato: giocano un ruolo importante gli oggetti, gli abiti rammendati e soprattutto i luoghi, come i cortili e le piazze. I cortili dei palazzi dei quartieri popolari erano un luogo di ritrovo per chiacchiere e pettegolezzi, erano sede del vivere comune, e nel bene o nel male, teatro della quotidianità. Dai cortili si sentiva tutto: i gemiti d’amore, le grida di rabbia, il rumore delle percosse, i discorsi delle signore che parlavano da una finestra all’altra. In piazza e in cortile si svolgeva gran parte delle giornate delle persone all’epoca.
La piazza era invece un luogo di ritrovo per i bambini, che erano soliti giocare a pallone a tutte le ore del giorno, e per le donne, che vi si recavano quotidianamente per fare la spesa al mercato. Le stesse piazze in cui “corre la gente”, come recita “La sera dei miracoli”, tra le colonne sonore del film. Ci sono tante immagini in comune tra le strofe della poesia di Dalla e le scene del film di Cortellesi: “i vicoli di Roma” in cui è ambientato il film; “la città che si muove” nel giorno delle elezioni, con scene di estremo dinamismo, tra la folla che si accalca e i protagonisti che corrono.
Delia attraversa il cortile del complesso residenziale ogni giorno per rientrare nel seminterrato dove vive, nei quartieri popolari, col marito Ivano (Valerio Mastandrea), i suoi tre figli (due maschi e una femmina) e il suocero (Giorgio Colangeli), uomo insopportabile e con le mani lunghe.
Fin dalla primissima scena lo spettatore viene catapultato in un contesto cupo e avvilente: Delia, a letto accanto al marito, riceve uno schiaffo invece del buongiorno.
Questo gesto prepotente fa subito capire, a chi guarda la pellicola, davanti a quale registro drammatico ci si trova. Ma Paola Cortellesi, al suo esordio alla regia, non rinuncia al suo lato comico: il registro drammatico è intervallato da momenti di leggerezza, che strappano un sorriso. I dialoghi con l’amica Marisa, l’incontro con il soldato americano, il cioccolato tra i denti negli sguardi con Nino: sono tante le scene in cui si può tirare un sospiro di sollievo.
Marisa e Nino sono due personaggi positivi, che seppur figli del proprio tempo, dimostrano di avere una coscienza politica ed economica più sviluppata.
La prima rappresenta per Delia un raggio di sole nelle giornate grigie, unica valvola di sfogo nella pressione quotidiana; è una donna più moderna, che vive un rapporto sano con il proprio marito, fondato sull’amore e non sul possesso. Emblematica è la scena in cui le due amiche fumano una sigaretta per strada, attività del tutto impopolare per due donne in quegli anni; Delia confessa a Marisa di stare “rubando” alcuni dei soldi che guadagna, non consegnandoli al marito. Marisa le spiega che quei soldi sono suoi e dovrebbero spettarle di diritto, non li sta affatto rubando.
Nino rappresenta invece l’amore vero, quello che Delia ha conosciuto e conosce, ma nonostante ciò lascia da parte, perchè pensa che così debba essere, che la sua condizione non possa essere cambiata. Ecco allora che la scena più intensa che li riguarda è accompagnata dalle note di “M’innamoro davvero”.
L’alternanza di registri non è necessità cinematografica, ma racconto realistico di quella che era la vita di tante donne all’epoca. Delia vive in un contesto drammatico, infestato dalla violenza e dalla prepotenza, ma accetta la sua condizione senza rendersi conto della sua gravità. Delia non ha ambizioni e non pensa altro che ai figli e al marito. Eppure, nel corso del film emerge il coraggio della donna, in diverse scene: il momento in cui si prende la colpa al posto della figlia, l’esplosione della bomba nel bar dei Moretti, la scelta di non rivelare la morte del suocero, fino alla grandiosa scena finale alla sezione elettorale.
Insomma, sono tante le tematiche che questo forte film espone, a partire proprio dalla serie di violenze, fisiche e psicologiche, che subisce la protagonista tra le mura domestiche.
Questa violenza è trasformata in una danza surreale sulle note di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli, in cui le “botte” non si riducono a schiaffi e aggressività, ma si fanno metafora che fa dell’arte lo strumento adatto per farla arrivare allo spettatore in modo più incisivo. Un modo di rappresentare la violenza “ad effetto”, per evitare che un momento così delicato sfoci nel voyeurismo e nell’apoteosi del cattivo.
C’è ancora domani richiama uno scenario oscuro e caotico di tempi passati, in cui le aspettative sociali erano basate su rigidi ruoli di genere, e il rapporto uomo-donna era disfunzionale e tutt’altro che paritario perché guidato dalla prepotenza maschile che limitava l’opportunità delle donne. Tempi in cui era sempre l’uomo a prendere la parola, che aveva il potere di zittire la voce della donna.
Ma non c’è bisogno di gridare, non tutte le rivoluzioni fanno rumore: la battaglia di Delia era una di quelle battaglie che passano inosservate alla storia, ma senza le quali la società non sarebbe andata avanti. Questo film celebra non solo le donne presenti nei libri di storia, che si sono tanto spese per l’emancipazione femminile, tra cui Nilde Iotti, Lea Garofalo o Lina Merlin, ma anche quelle che hanno dato il loro contributo nel contesto familiare e spesso povero di cui facevano parte.
Delia rappresenta una delle tante donne che, seppur silenziosamente, hanno costruito il tessuto sociale del nostro Paese, emancipandosi attraverso lunghe lotte per ottenere pari diritti e opportunità, per essere trattate come individui autonomi e non come dipendenti da un sistema che le relega a ruoli specifici.
La loro è una rivoluzione “a bocca chiusa”, come canta Daniele Silvestri nell’omonima canzone.
Il tema del tenere la bocca chiusa viene ripreso varie volte nel corso del film e straordinariamente capovolto nel finale. “Stai zitta” è una frase che le donne si sentono ripetere spesso dai mariti, e non solo nelle famiglie povere come quella di Delia, ma anche in quelle di più alta estrazione sociale. Il suocero si lamenta spesso con Delia: “Te devi impara’ a sta zitta”. E Delia sta zitta. Ma quello che non sanno gli uomini violenti e prevaricatori come Ivano e suo padre è che la differenza si può fare anche a bocca chiusa. La canzone di Daniele Silvestri porta a compimento questo tema nella scena finale del film, dove migliaia di donne, chiamate alle urne per la prima volta, la differenza la fanno con una matita e un foglio bianco. A bocca chiusa e senza rossetto, per non sporcare la scheda elettorale. “Senza rossetto” è oggi anche un bellissimo progetto curato da Silvana Profeta ed Emanuela Mazzina, che si propone di intervistare alcune delle donne che votarono in quei primi giorni di giugno del ‘46, raccogliendo testimonianze preziose.
A bocca chiusa, “senza scudi per proteggersi, né armi per difendersi”, Delia si dà da fare prendendosi cura della famiglia, svolgendo tanti lavori per portare a casa qualche lira, nonostante la disparità retributiva di genere, influenzata dagli stereotipi, non le permetta di guadagnare al pari dell’uomo nell’equivalente lavoro. Delia si occupa soprattutto del futuro della figlia, sua ragione di vita. In una società destinata a lasciare ai figli ciò che è toccato alle madri, in un pattern tremendo destinato a ripetersi all’infinito, Delia ha il coraggio di agire per salvare Marcella da un matrimonio che non promette bene.
C’è ancora domani non è solo il titolo del film, ma anche la frase che lo sconvolge e diventa un potente inno alla libertà. A sconvolgere è l’equivoco costruito dai pregiudizi delle nostre teste e non dalla sceneggiatura. Infatti, non ci sono indizi che riguardano una fuga d’amore. È lo spettatore a credere che la protagonista stia pianificando la fuga con Nino, l’uomo che ama, ma c’è qualcosa che gli sta sfuggendo. Il piano di Delia è fin dall’inizio quello di andare a votare. E nel momento in cui Delia sposta il vecchio calendario manuale sul giorno 2 giugno 1946, lo spettatore assume la consapevolezza del colpo di scena imminente che cresce. Il voto diventa la sua rivincita, la prima occasione di fare la differenza, di contare qualcosa. Una rivincita non solo nei confronti di sè stessa, ma anche della figlia, che per la prima volta vede nella madre una persona in grado di decidere per sè, e non una fallita in balia del marito prepotente.
Il domani di Delia è il 3 giugno, l’ultimo giorno in cui andare a votare per la prima volta. Il nostro domani è tutti giorni: per tutte le donne che hanno lottato e per quelle che stanno lottando ora, nella speranza che un giorno non ci sarà più bisogno di farlo.