
“La madre di tutte le riforme”: ecco come l’attuale premier Meloni ha definito la proposta, avanzata dalla ministra Casellati per le riforme istituzionali e la semplificazione normativa e recentemente approvata all’unanimità il 3 novembre all’interno dello stesso Consiglio dei ministri, concernente l’elezione diretta a suffragio universale del capo di Governo, carica da quest’ultima attualmente ricoperta.
La nomina del Presidente del Consiglio dei ministri ha sempre segnato un evento estremamente pregnante nello scenario politico e costituzionale del nostro Paese, soprattutto alla luce delle frequenti cadute dell’organo esecutivo cui i cittadini italiani hanno assistito e continuano ad assistere periodicamente; non è una novità, infatti, quanto l’instabilità governativa caratterizzi l’apparato ordinamentale entro il quale operano le forze politiche oggi presenti, sia fra i seggi del Parlamento sia nella stessa maggioranza che si riunisce a Palazzo Chigi.
Un’instabilità che perdura da anni e che ha dato adito, allora come oggi, ad energici dibattiti in relazione all’esigenza di porre un decisivo freno a tali tendenze di squilibrio istituzionale;
soluzioni nette e risultati concreti, tuttavia, non sono (perlomeno allo stato dei fatti) stati ancora raggiunti, portando l’elettore medio a nutrire un senso sempre più crescente di sfiducia nei confronti dei rappresentanti del nostro Paese.
Sfiducia di cui d’altronde si è ben giovata l’attuale destra in carica trainata da Giorgia Meloni, la quale ha inteso ergersi, successivamente alle scorse tornate elettorali di settembre 2022, a unico baluardo rimanente cui i cittadini potessero fare riferimento, stante l’esperienza ritenuta da molti fallimentare della sinistra del Governo Conte nonché del successore “tecnico” Mario Draghi. Al di là però delle valutazioni squisitamente politiche sul quando e sul come precisamente sia germogliato il terreno fertile sul quale si è innestata la nuova azione conservatrice dell’attuale destra italiana, è bene cercare di comprendere a livello giuridico che cosa effettivamente comporta il nuovo disegno di legge di riforma costituzionale considerato uno dei perni fondamentali all’interno del programma di Meloni.
Ad oggi, infatti, la nostra Costituzione sancisce all’articolo 92 che la nomina del Presidente del Consiglio dei ministri spetta al Presidente della Repubblica; dunque, allo stato dei fatti all’attuale Capo di Stato Sergio Mattarella. Si tratta di un momento estremamente delicato nella catena di funzionamento delle istituzioni, tale per cui la nomina non può certamente essere lasciata al caso o, meglio, a considerazioni arbitrarie od opportunistiche del soggetto chiamato a sciogliere questo nodo fondamentale. Il motivo è palese: a essere in gioco è il futuro politico del paese, l’operatività dei suoi apparati, l’equilibrio imprescindibile da realizzarsi attraverso la collaborazione fra i tre poteri dello Stato e, al di sopra di tutto, nello spirito più vivo della democrazia, le condizioni di vita dei cittadini.
Ed è proprio a costoro che la premier si rivolge nell’evidenziare l’importanza del cambiamento costituzionale: «Negli ultimi 75 anni di storia Repubblicana abbiamo avuto 68 governi con una vita media di un anno e mezzo. Questa è la madre di tutte le riforme che si possono fare in Italia perché, se facciamo un passo indietro e guardiamo agli ultimi 20 anni, abbiamo avuto 12 presidenti del Consiglio».
Parole, dunque, che premono fortemente in direzione di una svolta epocale, la quale potrebbe arrivare dunque a simboleggiare la risoluzione definitiva a tutti i fragili accordi, a tutte le traballanti maggioranze di governo, insomma, volendo semplificare, a tutte le stagioni politiche contraddistinte dalla litigiosità dei partiti. Giorgia Meloni mira al cuore delle problematiche istituzionali che affliggono l’Italia da tempo immemorabile, e nonostante la proposta possa considerarsi quantomeno coerente sul piano astratto, i risultati (e le intenzioni che dietro a essi si celano), assieme alle modalità di attuazione non sono assolutamente esenti da profili di problematicità.
Per comprendere appieno questi ultimi è bene partire dal testo della riforma così esistente a seguito dell’approvazione del Consiglio dei Ministri; esso abbraccia nello specifico tre articoli (originariamente cinque, poi ridotti in ossequio alla necessità di soluzioni dopo le tensioni sorte fra Lega e FdI sull’iter da seguire nelle riforme): l’articolo 88, in merito al potere del Capo dello Stato di sciogliere le Camere, l’articolo 92 concernente appunto la nomina del premier, e infine l’articolo 94, norma disciplinante la mozione di fiducia e sfiducia al Governo.
Chiaramente il cardine della modifica del dettato costituzionale è costituito proprio dall’articolo 92, il quale successivamente a quest’ultima determinerebbe l’introduzione, all’interno dell’architettura ordinamentale italiana, dell’elezione del premier a suffragio universale, ponendo i cittadini al centro della scelta politica per eccellenza che regola il funzionamento del nostro paese; conseguentemente, attraverso questo nuovo meccanismo l’elezione del Presidente del Consiglio e dei parlamentari avverrebbe attraverso un’unica scheda in mano all’elettore.
Le novità non si esauriscono qui, siccome l’attuale bozza del disegno di legge prevede anche l’instaurazione di un sistema elettorale maggioritario, il quale assegnerebbe un premio di maggioranza del 55% dei seggi nelle Camere ai candidati e alle liste collegate al candidato premier eletto.
Va da sé, e comincia ad intuirsi allo stesso tempo, come la posizione del premier venga notevolmente rafforzata in questo modo, godendo quest’ultimo della fiducia della sovranità popolare così tradottasi alle urne e potendosi al contempo immediatamente garantire una solida maggioranza all’interno dell’organo legislativo. Ultima ma non per importanza è la previsione di una norma cosiddetta “antiribaltone”: allo scopo di evitare sfiducie “distruttive” e per evitare di ricorrere al tradizionale meccanismo del voto almeno in prima battuta, (meccanismo evidentemente considerato dalla destra dilatorio e soprattutto non risolutivo alla luce dei numerosi programmi di governo rimasti inadempiuti successivamente alla caduta dei suoi esponenti), le dimissioni o la stessa caduta del premier faranno scattare l’affidamento del mandato a formare un nuovo Governo (conferito sempre dal Presidente della Repubblica), o allo stesso premier in caso di dimissioni, oppure a un parlamentare regolarmente eletto tra le fila della coalizione di cui faceva parte il precedente Presidente del Consiglio. In altre parole, trattasi di un rappresentante direttamente collegato a quest’ultimo.
Al voto si tornerebbe soltanto qualora il nuovo esecutivo così formatosi cadesse o non ottenesse la fiducia delle Camere. La ratio politica è evidente: garantire la continuità nella realizzazione dei programmi di governo si configura quale obiettivo imprescindibile nell’impianto della nuova riforma, potendo così in tal modo sopperire al perenne svuotamento di promesse elettorali sempre prese in carico e mai realizzate dai componenti dell’esecutivo. Il disegno di legge si chiude con una corrispondente riduzione dei poteri del Capo dello Stato, al quale non spetta più nominare il leader dell’esecutivo ma solo ovviare al conferimento dell’incarico a costui; la restrizione delle prerogative del presidente vede poi la propria conclusione definitiva attraverso la cessazione della nomina dei senatori a vita (fermo restando chiaramente che gli attuali membri nominati a vita manterranno la carica sino alla fine del mandato). La stabilità sembra essere dunque il punto forte nella bozza di modifica del testo costituzionale, considerando anche quanto Meloni e la sua maggioranza abbiano tenuto a ribadire che si tratta di un sistema del tutto avulso da propositi occulti di rafforzamento dei poteri del premier, i quali rimarrebbero del tutto invariati. Nonostante ciò, le incongruenze che affiorano sono molteplici e potremmo riassumerle in tre punti principali:
- Il premier eletto a suffragio che posizione assume concretamente? Avrebbe una legittimazione piena e valida, e soprattutto, potrebbe acquisire i tratti di una figura in capo alla quale si concentrano troppi poteri, stravolgendo l’impianto costituzionale fondamentale?
- Dove si colloca il ruolo del Parlamento all’interno della riforma? L’organo legislativo trarrebbe giovamento dall’asserita maggiore stabilità dell’esecutivo raggiunta tramite queste modalità?
- La figura del Presidente della Repubblica resisterebbe ancora nella sua veste di garante del circuito di costituzionalità a seguito di una riduzione delle proprie prerogative non propriamente irrisoria?
Il primo quesito pone la questione cruciale, l’elemento che d’altronde sorregge l’intera struttura riformistica. È vero, infatti, che un leader dell’esecutivo democraticamente eletto rispecchierebbe appieno la volontà del popolo; tuttavia, è vero anche che così facendo, il potere di nomina giacerebbe nelle mani, per usare un’espressione densa di significato, dell’“italiano medio”. Ora, il diritto di voto concesso alla totalità del corpo elettorale costituisce una conquista assolutamente intoccabile e granitica all’interno della nostra repubblica, ma ciò non toglie (senza sfociare in discorsi classisti o addirittura discriminatori), che la legittimazione popolare pur avendo pregi in termini di democraticità perderebbe consistenza in termini di strategia politica e individuazione del soggetto maggiormente qualificato alla luce di delicati bilanciamenti fra le forze dei partiti.
In quest’ottica compromessi e accordi per la formazione di un nuovo governo risultano assolutamente fondamentali, senza contare il già più volte sperimentato fenomeno, all’interno delle stagioni politiche italiane, dei “governi tecnici”, del quale la recentissima espressione è stata proprio la presidenza Draghi nel periodo pandemico transitorio; governi la cui importanza non è da trascurarsi specialmente dinanzi alle (frequenti) difficoltà nell’individuare un candidato meritevole fra i partiti.
Volendo semplificare, i tecnici ci hanno salvato più di una volta.
Ma Meloni, in definitiva, vorrebbe porre fine a tutto ciò, attribuendo ai cittadini la massima responsabilità istituzionale nell’identificazione del nuovo premier. Tuttavia, tale responsabilità dovrà fare necessariamente i conti con l’interesse degli Italiani alla vita politica del loro stesso paese: se le astensioni, come hanno confermato le scorse elezioni di settembre 2022, sono state giudicate il fenomeno in assoluto più preoccupante (nonché dilagante fra i cittadini), arrivando l’affluenza alle urne a toccare una percentuale del solo 63,8% (quindi in totale una perdita di 27 punti percentuali per quante persone abbiano effettivamente esercitato il proprio diritto di voto dal 1948 al 2022), ad oggi intimoriscono ancora di più le statistiche relative alla partecipazione alla vita politica. Nel rapporto più recente dell’ISTAT, risalente al 2022, in relazione ai dati riguardanti l’informazione politica, è inquietante constatare come i soggetti considerati (dai 14 anni in su), non si curino affatto dello stato istituzionale del paese per totale mancanza di interesse, con percentuali che raggiungono picchi del 68,3% persino fra il corpo elettorale nella fascia fra i 25 e i 34 anni di età; inoltre, allo stato dei fatti, l’interesse è direttamente proporzionale al titolo di studio conseguito, senza considerare il “come” il corpo elettorale concretamente si informa nel reperire informazioni trasparenti e professionali (ma non è possibile addentrarsi ora in questo discorso che svierebbe l’argomento centrale dell’articolo).
Insomma, una situazione tutt’altro che incoraggiante dal fronte del popolo come protagonista in vista dell’introduzione del “premierato”. I confini del problema si espandono ulteriormente se consideriamo che l’elezione a suffragio universale del premier consoliderebbe una figura di potere “senza contrappesi”: il Presidente del Consiglio dei ministri dominerebbe la scena senza avere più alcuna necessità di negoziare le decisioni da prendere, né con le Camere, né tantomeno con la propria maggioranza attraverso l’attribuzione del premio del 55% e della supposta legittimazione democratica.
Un solo individuo, peraltro una figura di parte e non dall’origine neutra come accade per il Capo dello Stato, avrebbe in mano le redini dell’azione istituzionale, con l’aggiunta che neanche le dimissioni o la caduta del governo in carica scalfirebbero la posizione verticistica raggiunta.
Un solo individuo che, anche se con poteri asseritamente immutati sul piano formale, influenza in maniera evidentissima le sorti degli equilibri nazionali. La storia italiana recente, e le sue conseguenze rovinose, sembra dunque non aver insegnato nulla ai promotori della riforma ora sul tavolo. L’altra faccia della medaglia è costituita dalla risposta al secondo quesito, ovvero la collocazione del ruolo parlamentare nella vicenda.
Il Parlamento, nel solco di una prassi da disapprovarsi interamente e che farebbe inorridire i costituenti, negli ultimi anni ha assunto un ruolo sempre più marginale, soprattutto alla luce dell’abuso ripetuto dello strumento degli atti aventi forza di legge: decreti legge e decreti legislativi, i quali prevedono l’intervento dell’esecutivo rispettivamente a fronte di impellenti ragioni d’urgenza e di una delega (il più delle volte in bianco), sono divenuti il mezzo principale attraverso cui il Governo si sostituisce, e anzi potremmo dire si ingerisce, troppo spesso nelle prerogative parlamentari. Una prassi lassista rafforzata anche dall’assenso dello stesso organo legislativo e giustificata da inadeguate motivazioni di celerità e necessità, che ha però permesso all’esecutivo di acquisire sempre più spazio nei procedimenti normativi.
La mancanza di contrappesi menzionata in precedenza è poi ulteriormente enfatizzata dalla maggiore instabilità che caratterizzerà i partiti facenti parte della maggioranza qualora la riforma venisse approvata, portando potenzialmente all’esasperazione la competizione interna soprattutto in caso di dimissioni o caduta del leader dell’esecutivo (stante il fatto che a sostituirlo sarebbe per forza un parlamentare a quest’ultimo collegato). Le specificità inerenti, infatti, la volontà di impedire cambi di maggioranza o l’instaurazione di governi tecnici, insite nei punti fondamentali della riforma, spingono il quadro generale verso una prospettiva di antiparlamentarismo forse un po’ troppo estrema vista la palese compressione delle medesime libertà parlamentari, quelle che in ultima analisi sono vere e proprie prerogative imprescindibili.
Infine, l’ultimo punto da considerare concerne il ruolo del Presidente della Repubblica, e come quest’ultimo verrebbe ad assumere una veste piuttosto differente rispetto a quella con cui tale carica è stata rappresentata sin dall’origine nell’impianto costituzionale. Va ribadito infatti come il Capo dello Stato sia una figura assolutamente neutra all’interno del nostro ordinamento, il cui ruolo primario si concreta nel vigilare assiduamente sul rispetto della carta costituzionale e delle disposizioni ivi contenute; stante questa constatazione essenziale, è chiaro come l’intervento del presidente risulti di estremo ausilio, nonché in alcuni casi addirittura decisivo, soprattutto in momenti di crisi istituzionale relativi proprio alla formazione di nuovi governi.
La presenza di una figura estranea alle logiche dei partiti, volutamente pensata per ricoprire il mero ruolo di garante senza attribuire a quest’ultima poteri che potessero elevarla gerarchicamente parlando (chiaramente in memoria delle derive dittatoriali di cui l’Italia ha fatto tristemente esperienza), soccomberebbe, o perlomeno vedrebbe la propria funzione svilita platealmente, a fronte innanzitutto della perdita di una delle sue prerogative fondamentali, la nomina del Presidente del Consiglio, e a seguire la perdita “simbolica” quale esponente dell’unità nazionale siccome a eleggere il Capo dello Stato sarebbe ora un Parlamento su cui si staglia saldamente la figura del Primo Ministro. Sostanzialmente verrebbe attuato un ribaltamento dei ruoli, esecutivo e presidenziale, come sinora sono stati conosciuti: il premier, eletto direttamente e avente piena legittimazione (anche se, è bene ricordarlo, perché il Governo si insedi effettivamente occorre come presupposto preliminare la fiducia delle Camere, indebolita in questo caso ma mai scontata), e il Presidente della Repubblica, eletto indirettamente dal Parlamento sempre più svuotato delle proprie prerogative.
L’indebolimento del garante di costituzionalità costituisce una deriva pericolosa per l’intero assetto ordinamentale e un ulteriore fattore pregno di interrogativi, facendo così aumentare i già numerosi dubbi che aleggiano intorno al testo della riforma. Le riflessioni tratte da questa analisi portano dunque a comprendere come il cosiddetto “premierato soft” condurrebbe l’Italia verso un sistema di stampo presidenziale temperato, e tuttavia estremamente lacunoso dal punto di vista di adeguati contrappesi in grado di bilanciare l’accresciuto potere del Presidente del Consiglio dei ministri.
D’altronde in queste settimane non sono mancate aspre voci di dissenso nei confronti dell’embrionale proposta di riforma, provenienti anche da esponenti di spicco del panorama giuridico-politico.
Uno dei primi a esprimere il proprio parere negativo sullo sviluppo del premierato è stato Giuliano Amato, ex premier nonché presidente emerito della Corte costituzionale. Amato pone infatti l’accento su come la modifica del testo costituzionale metterebbe seriamente a repentaglio le prerogative del Parlamento e del Presidente della Repubblica, “indebolendo le Camere e prosciugando il Capo dello Stato nella sua figura di garanzia”.
Come abbiamo già evidenziato in precedenza, il divario vistosissimo fra due figure, l’una eletta direttamente dal corpo elettorale, l’altra indirettamente da un Parlamento asservito alla composizione governativa, produrrebbe una consequenziale preminenza della prima sulla seconda, facendo venire meno uno dei cardini fondamentali di neutralità previsti dalla Costituzione. Il presidente emerito della Consulta si mostra però cauto sulla strada che Giorgia Meloni potrebbe effettivamente intraprendere, ammonendo come l’esito del NO al probabile referendum costituzionale che ci sarà costituirebbe una sconfitta politica di dimensioni significative, e aggiungendo come, se proprio di riforme costituzionali si dovesse parlare, sarebbe allora meglio avviarsi verso un modello “alla tedesca” (il quale valorizza il ruolo del Primo Ministro lasciando allo stesso tempo impregiudicate le fondamenta gettate dai padri costituenti).
Altri costituzionalisti, come il Professor Michele Ainis, ritengono invece che, pur costituendo un cambiamento pregno di conseguenze, la riforma non sarebbe da condannare a priori, rinnovando così l’invito prudente a giudicare una volta appurata la stesura del testo definitivo.
Infine, è bene illustrare che cosa ne pensano effettivamente gli Italiani, diretti destinatari del cambiamento istituzionale che inciderà sul nostro ordinamento giuridico: secondo le recenti stime condotte dall’istituto di ricerca politica e sociale Demos in un sondaggio creato per il quotidiano la “Repubblica”, circa il 53% degli Italiani intervistati sarebbe favorevole all’introduzione di un modello di presidenzialismo “temperato”, dato che seppur lievemente superiore alla maggioranza, non conferma né contrasta in modo inequivocabile le previsioni riguardo l’esito del referendum confermativo. Quest’ultimo, è bene ricordarlo, sembra essere dato per scontato alla luce del fatto che la maggioranza parlamentare dei due terzi non verrà raggiunta secondo l’opinione politica prevalente.
L’ultima parola, dunque, spetterà al corpo elettorale, quello che, proprio negli auspici di Giorgia Meloni, riuscirà a porre l’epilogo definitivo alle instabilità politiche imperversanti nel paese.
Articolo di Vittoria Menga