La guerra civile sudanese è uno dei conflitti più duraturi del nostro millennio. Basti qui ricordare che il 15 aprile è fallito il tentativo di integrare il gruppo paramilitare RSF nell’esercito nazionale, causando l’apertura del conflitto tra le due colonne portanti del governo: Abdel Fattah al-Bhuran (capo dell’esercito nazionale) e Mohamed Hamdan Dagalo (capo del gruppo paramilitare Rapid Support Forces).
Entrambi combattono per imporre la propria egemonia, a discapito del tentativo che avevano fatto negli anni precedenti di collaborare e coalizzarsi. Queste due fazioni, secondo gli analisti, si equivalgono a livello di forza spendibile sul campo e non sembrano propendere per una mediazione, rendendo il conflitto una lunga agonia.
Per inquadrare il conflitto che si consuma all’interno dei confini dello Stato sudanese è necessario isolare almeno tre nozioni:
- Il Sudan si distingue dal Sudan del Sud, diventato stato indipendente nel 2011 con una secessione. Alcuni territori della zona settentrionale del Sudan del sud sono ancora contesi. Il neo-stato, comunque, dipende economicamente dal Sudan per un aspetto fondamentale: la manifattura e l’esportazione del petrolio; il che non è poco, essendo questa la principale risorsa di una nazione appena nata, in costruzione e sviluppo, con pochi contatti con l’esterno e una situazione interna tumultuosa.
- Il Sudan è un Paese a maggioranza araba con numerose minoranze etniche stanziali: moltissimo sangue scorre in conseguenza degli attriti di matrice etnica, religiosa e culturale.
- All’interno dei confini sudanesi vi è una area di particolare allerta: la regione del Darfur, teatro di innumerevoli conflitti e di un genocidio (2002-2020) ai danni della popolazione non-araba che qui rappresenta la maggioranza
Ne stiamo parlando e dobbiamo parlarne, perché il Sudan è un Paese tanto strategico da interessare molti altri Stati della scena internazionale, per diverse ragioni.
I giacimenti petroliferi e le riserve d’oro, di cui si interessa in primo luogo la Russia, tramite il gruppo Wagner: presente sul territorio dal 2017 fino ad oggi, quest’ultimo si propone quale peace keeper, con ben poca onestà intellettuale considerati gli interessi economici in gioco e nonostante l’invasione dell’Ucraina ne riduca ulteriormente la credibilità.
E in effetti, un po’ della guerra russo-ucraina si è trasferita anche sul suolo sudanese. Qui, la presenza di questi due attori sembra essere molto probabile: le forze Wagner da un lato, i servizi speciali di Kiev dall’altro.
La CNN infatti, nel settembre 2023, ha ipotizzato il coinvolgimento di Kiev nel conflitto sudanese in base a due elementi: anzitutto, una fonte interna alle forze di sicurezza ucraine ha fornito filmati che vedono presunti agenti delle forze speciali dei servizi segreti ucraini (GUR) impegnati contro il gruppo russo Wagner (al riguardo, il Governo di Kiev non ha confermato). In secondo luogo, gli attacchi hanno visto l’uso di tattiche tipicamente ucraine e l’utilizzo di droni kamikaze FPV, prodotti da gruppi di volontari in Ucraina e fino ad oggi mai utilizzate al di fuori dei loro confini. Certo, sono ancora ipotesi, ma ci suggeriscono la portata del conflitto sudanese e le sue conseguenze sulla politica internazionale.
Il problema è che la disattenzione e l’indifferenza globali rispetto a questa guerra lasciano assoluta libertà d’azione a tutti gli attori interessati con poche o nulle garanzie del rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale dei conflitti armati.
Non solo Russia e Ucraina risentono di questa situazione: il Sudan è strategico e vitale anche per il neonato Sudan del Sud che dipende strettamente dalle raffinerie del vicino perché, per quanto sia ricchissimo della materia prima, manca delle strutture di raffinazione ed esportazione del prodotto finale. Questo conflitto riguarda inoltre da vicino anche il Ciad, che si è occupato dell’accoglienza dei rifugiati.
Insomma, il Sudan, non è un «Paese qualsiasi», dice Silvia Boccardi (dal Podcast Globally, Quali sono le conseguenze del conflitto in Sudan?). La sua importanza strategica deriva innanzitutto dalla sua localizzazione tra Libia, Egitto, Ciad, Repubblica Centrafricana e tra Sud Sudan (nuovo e fratello) ed Etiopia (uscente da una guerra civile); ma anche per via delle sue spiagge sul Mar Rosso ,che farebbero comodo a vari attori internazionali (Russia, per il possibile accesso all’oceano Indiano; Sud Sudan, per esportare il suo petrolio). No, il Sudan e il suo conflitto, in politica non possono essere dei fantasmi. A maggior ragione sul piano umanitario.
Non sono infatti quelle geopolitiche le ragioni più impellenti per cui è necessario prestare attenzione al conflitto sudanese.
È importante perlomeno discutere di questa guerra, ricordarcene e spingere le autorità a cercare una soluzione diplomatica, per ragioni umanitarie. Il Sudan vince il primato mondiale per numero di sfollati interni: sono 7,1 milioni secondo le più recenti stime2 e il conflitto va intensificandosi. Il COOPI3, riporta l’aumento di attacchi aerei e combattimenti che interessano la capitale Khartoum, le zone del Kordofan e la regione della Nubia.
C’è un’area, in particolare, che dovrebbe allarmarci: il già citato Darfur, teatro di una catastrofe umanitaria dal 2003 al 2020, quando il governo sudanese avviò una campagna di pulizia etnica contro la popolazione non-araba. Risultato fu l’imputazione del presidente al-Bashir per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità da parte della International Criminal Court (ICC).
Oggi la storia si ripete: molte fonti indicano un probabile genocidio in atto nella zona e l’escalation di violenza interetnica. Ora, accostare le parole “probabile” e “genocidio” dovrebbe essere solo una precauzione formale nell’attesa degli accertamenti delle autorità perché, nei fatti, il numero di vittime è elevatissimo: 9000 negli ultimi 5 mesi, fonte ONU.
I connotati di un’azione genocidaria ci sono tutti:
le forze FSR (le milizie arabe di etnia janjaweed il cui operato in Darfur era stato classificato come crimine contro l’umanità dal Human Rights Watch) stanno – di nuovo – compiendo un’operazione di pulizia etnica contro l’etnia Masalit. Questa era stata la strategia anti-insurrezione messa in atto dal governo già nel 2003 per contrastare l’insorgenza dei gruppi di opposizione armata, sottoponendo i civili stabiliti nell’area del Darfur a violenze estreme: attacchi, sfollamenti e assenza di forniture di emergenza hanno generato fame, disidratazione ed epidemie. Hanno subito abusi, stupri, mutilazioni. A migliaia sono morti. Tale situazione si sta replicando, de facto, in questo nuovo conflitto. Resta l’accertamento tecnico da parte della corte penale internazionale che ha avviato una nuova indagine a luglio di quest’anno. Tuttavia, l’attività di indagine non deve, nel frattempo, determinare uno stallo nel contrasto ai massacri e nell’invio di aiuti umanitari. L’indagine, sola e senza interventi ausiliari, non salva vite.
Oggi, infine, è essenziale parlare di questo conflitto perché circa 50mila persone sono accampate, in condizioni drammatiche, nella zona orientale del Ciad: provengono dal Sudan, sono in fuga dalla violenza etnica che lì imperversa ma non sono riusciti a raggiungere gli altri 450mila profughi sudanesi accolti dal Ciad. Quest’ultimo ha ospitato più rifugiati in questi cinque mesi che negli scorsi vent’anni: le stime suggeriscono che entro la fine di quest’anno possano arrivare a 600mila (fonte: UNHCR).
Intanto, un numero consistente di loro non ha accesso a rifugi e sopravvive in accampamenti improvvisati, senza assistenza né servizi, vessati prima dalla guerra poi dalla natura ostile, in una sorta di limbo del terrore. Quei 50mila sono stati dimenticati. Ennio Miccoli, direttore di COOPI, in occasione del COOPI Meeting a Milano, ha dichiarato: «L’Europa e il mondo ricco hanno gli occhi puntati altrove, ma nella regione sudanese è in corso una tragedia senza precedenti da arginare immediatamente, anche per evitare ulteriori escalation». Martin Griffith, sottosegretario generale per gli affari umanitari alle Nazioni Unite, ha indicato questa come uno dei «peggiori incubi umanitari della storia recente».
A tentare di arginare questa situazione drammatica ci sono solo associazioni umanitarie come COOPI, presente sul territorio sudanese dal 2004 a sostegno dei gruppi più vulnerabili (sfollati interni, rimpatriati, rifugiati e comunità ospitanti).
Ha agito tramite operazioni di sicurezza alimentare e assistenza primaria – uno di questi progetti ha permesso agli abitanti della zona di Kebkabyia di sviluppare un regime di fornitura di acqua potabile. Sul piano informativo, il Centre for Information Resilience ha sviluppato un interessante strumento di osservazione e catalogazione delle violenze messe in atto nella zona durante il conflitto, con una banca dati di video a supporto della denuncia di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani. Tutto questo è sicuramente utile ma non è sufficiente.
Il fatto che sia sempre necessario per le nazioni occidentali, un secondo fine non umanitario, piuttosto economico o strategico, è un’ipocrisia verso la nostra stessa retorica sui diritti umani e la fiducia che riponiamo nella loro tutela.
Il diritto a non essere vittima di violenza, o addirittura di genocidio, dovrebbe trascendere dagli interessi economici e politici della comunità internazionale:
dovrebbe essere salvaguardato e protetto strenuamente, vista anche la nostra esperienza storica e il ribrezzo che ci suscita; altrimenti è inutile parlare di diritti umani.
Si parli di diritti di alcuni, privilegiati umani. Ecco perché affermare per esempio che “il Sudan non è uno Stato qualsiasi” fa un po’ rabbrividire: significa che esistono “Stati qualsiasi”, di cui finiamo per non interessarci. Rimangono soli e i riflettori puntati altrove.