
Il 5 di ogni mese, 5 libri per tutti i gusti: BookAdvisor è la rubrica dove vi consigliamo ciò che ci è piaciuto di recente, tra novità e qualche riscoperta.
Geografia di un dolore perfetto, Enrico Galiano (Garzanti) – recensione di Matilde Elisa Sala

Quando era un ragazzino, Pietro è stato abbandonato da suo padre. Ha pochi ricordi con lui, alcuni molto confusi, ma una cosa è certa: gli ha sicuramente lasciato la spezzanza, quella sensazione di essere spezzati, di non vivere mai appieno, che Pietro si porta con sé persino ora, che è professore universitario, sposato con un figlio. Mentre è in vacanza riceve una telefonata inaspettata che lo costringe a mettersi in viaggio verso Tenerife il più velocemente possibile. Pietro non ha tempo da perdere, deve fare in fretta o perderà forse il momento più importante di tutta la sua vita.
Il viaggio verso Tenerife sarà per Pietro un percorso labirintico, fatto di numerosi ostacoli da superare. Dovrà affrontare tutti i suoi fantasmi per imparare a leggere quell’immensa carta geografica che sono le sue emozioni, mettere tutti i tasselli al loro posto e fare pace con sé stesso.
Non è facile, una volta terminata la lettura, dare un giudizio immediato sul romanzo, anzi, probabilmente con le guance rigate di lacrime, si rimarrà un po’ persi tra i propri pensieri. Geografia di un dolore perfetto parla di amore, ma anche di solitudine e della difficoltà di aprirsi e dialogare: il padre di Pietro non comunica e suo figlio non capisce cosa sta accadendo. Ed è arrabbiato con lui, per non avergli mai dato una spiegazione. Pietro si chiede come sarebbe stato, se suo papà fosse sempre stato lì con lui, come lui avrebbe voluto.
Si dice non sia facile essere genitore, ma spesso può essere difficile persino essere figlio. Galiano, con estrema delicatezza, tocca una tematica davvero importante, raccontando una storia che, seppur romanzata, lo ha coinvolto in prima persona. Pondera le parole con cautela, ci fa vivere i sentimenti dei personaggi pagina dopo pagina, e ci lascia poi a riflettere. Nonostante la spezzanza però, o il dolore, o gli errori, da questo romanzo trasuda tanto, tantissimo amore.
Gli assediati, Stefano Nardella, Vincenzo Bizzarri (Edizioni BD) – recensione di Jessica Rodenghi

Tra le palazzine di Foggia sta succedendo qualcosa di grosso. Dopo vent’anni che si tenta di sgomberare un edificio, i poliziotti decidono di sfondare le porte, buttando fuori chiunque. È una lotta impari, chi può si difende, chi non può scappa. Battaglie come queste fondano i luoghi di periferia che nessuno vuole vedere, palazzine sovraffollate in cui lo Stato non c’è, ma i vicini di casa diventano i primi alleati per sopravvivere. Gli amici, però, possono avere dei segreti e questi vengono a galla quando devi abbandonare tutto e buttarti di testa in una lotta contro la polizia.
Uno spaccato collettivo importante su uno dei tanti luoghi che abitano l’Italia. Un focus con stralci di dialetto, con cui spiare nelle vite di chi non ha scelto di vivere nella criminalità. In fondo, chi lo sceglie? In situazioni dove lo Stato non esiste e bisogna affidarsi soltanto a uomini fidati, le persone non hanno molte soluzioni alla mano.
Cosa significa essere assediati nella vita? I protagonisti di questo fumetto lo raccontano senza mezzi termini. Nascere dalla parte sbagliata della città non è una colpa, ma diventa il motore stesso delle proprie azioni. Quando la polizia decide che casa tua non è altro che un edificio da buttare giù, racconterai ancora la favola del se vuoi, puoi?
Esterina vende sigarette ai condomini, suo figlio è stato ucciso dai poliziotti. Anche il fratello di Cirù è morto ammazzato, ma non si sa chi sia stato. Poi ci sono i mafiosi, complici del tutto e anche distanti da ciò che accade, sono intoccabili. Allo stesso modo, tutto il mondo è periferia. Un racconto di valenza universale, che vale la pena leggere per rendersi conto di situazioni attuali, concrete, che accadono dietro alle nostre spalle ogni giorno. Il taglio è perfetto, non romanza e non esagera, racconta in senso giornalistico le vicende di un luogo.
Gelosia, Jo Nesbø (Einaudi) – recensione di Vittoria Menga

Che cos’hanno in comune una passeggera su un volo di linea che ha appena scoperto di essere stata tradita dal marito, un detective approdato in una selvaggia e apparentemente pacifica isola greca, un netturbino con problemi di gestione della collera, un fotografo squattrinato prossimo al divorzio e, infine, uno scrittore (quasi) di successo? Sembra l’inizio di una barzelletta dall’ilarità discutibile, eppure la risposta, intuibile dal titolo stesso del romanzo, si cela in quel mostro da cui già Shakespeare ci mise in guardia nell’opera teatrale Otello, la gelosia, essere terrificante dagli occhi verdi “che dileggia il cibo di cui si nutre”.
Jo Nesbø, maestro del crime psicologico norvegese, torna alla ribalta con un’opera inedita, un unicum all’interno della sua produzione letteraria: nel libro troviamo infatti una raccolta di storie del tutto slegate tra loro se non fosse per il filo rosso che si snoda sanguinolento tra le pagine, rappresentato proprio dalla gelosia. Storie che introducono il lettore all’interno di situazioni apparentemente innocue, familiari quasi, e tuttavia inaspettate sul finale, con il quale Nesbø ci sorprende senza ricorrere a frivoli escamotage, bensì giocando sulla fiducia che lo stesso lettore nutre per le diverse voci narranti, restando però spiazzato dall’esito completamente inedito delle vicende.
L’intero romanzo è paragonabile a un lungo trucco di magia, e il suo autore, in questo caso assumendo la veste di un vero e proprio prestigiatore, estrae dal fantomatico cilindro diverse abilità di cui il medesimo ha già dato prova nel corso della sua carriera letteraria; infatti, la capacità di descrivere con maestria e freddezza di particolari situazioni che coinvolgono persone comuni, talvolta di una piattezza esasperante, andando però a scavare nella psiche di ciascuna di esse per mostrarci i veri ed efferati istinti della natura umana, rende l’opera parte di un panorama differente e intrigante all’interno del mondo del thriller, uno spunto interessante che avvicina lo scrittore norvegese sino alle soglie dell’horror.
All’arme, all’arme! I priori fanno carne!, Alessandro Barbero (Laterza) – recensione di Giulia Riva

Cosa penseremmo oggi della Rivoluzione d’Ottobre se fosse fallita in quello stesso 1917 e, ucciso Lenin, eliminati bolscevichi e menscevichi, si fosse compiuta la restaurazione zarista? Cosa penseremmo oggi delle Rivoluzioni inglesi se già nel 1642 il re Charles I avesse avuto la meglio sul Parlamento e su Oliver Cromwell, della Rivoluzione americana se nel 1775 l’Impero britannico avesse ristabilito il proprio predominio sulle 13 colonie ribelli, o di quella francese se nel 1789 l’Assemblea costituente fosse stata repressa dal Re Louis XVI?
Attribuiremmo ancora valore agli ideali e alle ideologie che le animarono? Ci ricorderemmo ancora i nomi dei principali protagonisti? Di certo non le chiameremmo più “rivoluzioni”, perché rivoluzione è ciò che sovverte l’ordine stabilito, altera definitivamente gli equilibri.
È proprio per questo che le “insurrezioni” medievali sono oggi dimenticate: e non perché esse siano state guidate da ideali meno trascinanti o da leaders meno consapevoli rispetto alle “grandi” rivoluzioni dell’età moderna. Al contrario, tutti «i rivoltosi credevano di cambiare il mondo, e non sapevano che non ce l’avrebbero fatta».
Nel suo nuovo saggio Alessandro Barbero decide così di guidarci attraverso un trentennio inedito, nella seconda metà del Trecento, durante il quale si concentrarono alcuni moti «spettacolari» e dall’inizio «irresistibile»: dalla Jacquerie francese (1358) al tumulto dei Ciompi a Firenze (1378), dall’insurrezione inglese (1381) alla rivolta dei Tuchini in Piemonte (1386). Nessuno di essi fu – come a lungo si è voluto – una ribellione di contadini affamati e illetterati, guidati dalla disperazione o manovrati da qualche esponente politico: al contrario, emersero proprio nei periodi in cui il benessere aumentava e la società, organizzata e dotata di capacità progettuale, scorgeva la possibilità di ottenere un ulteriore miglioramento delle proprie condizioni.
Con un testo colto ma divulgativo, Barbero aggiunge un tassello prezioso per smantellare la rappresentazione stereotipata del Medioevo come un’epoca “oscura”, barbara e, in fin dei conti, inutile.
Se fosse una commedia romantica, Daniele Giannazzo (Mondadori) – recensione di Matilde Elisa Sala

Alex ed Eva sono fratelli, lui diciannove anni e lei ventisei; lui estremamente ironico, spavaldo e con la battuta sempre pronta, lei brillante, in carriera e molto impacciata, il che la rende ancora più simpatica. Durante una vacanza in un paesino sperduto in montagna, sembra essere arrivato il momento per entrambi di lasciarsi alle spalle tutti i dispiaceri e voltare pagina: Alex, infatti, è appena stato lasciato dal suo fidanzato dopo cinque anni di relazione, Eva invece è tremendamente sfortunata in amore. Ancora non sanno però, che questa vacanza stravolgerà per sempre le loro vite e che il prossimo capitolo che li aspetta sarà pieno di insidie…
Letteralmente: mai descrivere un libro dalla copertina e, in questo caso, nemmeno dal titolo! Giannazzo, già autore della trilogia di romanzi Roe e il segreto di Overville, Roe e l’inganno della memoria, Roe e l’ultima battaglia, ha dato veramente il meglio di sé, scrivendo un romanzo breve ma molto scorrevole e divertente, pregno di riferimenti a film e serie tv, come è caratteristico della sua penna, fresco e meraviglioso. Dalla metà in poi sarà impossibile posare il libro e il finale lascerà i lettori completamente a bocca aperta
Già noto al pubblico come fondatore del blog daninseries, l’autore dà ancora una volta prova della sua enorme creatività con una storia davvero molto coinvolgente che farà venire voglia di recuperare, se ancora non li si ha letti, pure i suoi romanzi precedenti.