Se si vuole abbandonare la quotidianità per un paio d’ore, immergendosi in un mondo ai limiti del surreale, “La Chimera” di Alice Rohrwacher è il film perfetto. La storia è a dir poco insolita: nella Tuscia degli anni Ottanta, un gruppo di tombaroli si guadagna da vivere rubando manufatti funebri etruschi, sepolti ovunque nel sottosuolo del paese, per poi venderli a un misterioso personaggio che va sotto il nome di “Spartaco”. Fra gli avidi tombaroli, però, c’è anche Arthur, un giovane archeologo inglese con un istinto quasi soprannaturale per il ritrovamento dei manufatti. Un rabdomante insomma. Per lui, a differenza che per i compagni, gli scavi clandestini significano molto più di semplici mazzette.
Il film è uscito nelle sale (perlomeno, in alcune) il 26 novembre. Tra gli attori principali troviamo Josh O’Connor, che lo spettatore potrebbe riconoscere come il giovane Carlo di The Crown, nei panni di Arthur, ma anche Isabella Rossellini nel ruolo di Flora, l’anziana signora che riaccoglie il protagonista al suo ritorno in paese, e Vincenzo Nemolato, che interpreta il tombarolo Pirro.
La storia si svolge prendendosi il suo tempo, rivelando con lentezza i segreti dei personaggi e del luogo, Riparbella, paesino immaginario che forse è il vero protagonista della pellicola.
L’ambientazione rurale è avvolta da un alone di affascinante decadenza, cui contribuisce il legame con le necropoli etrusche, dando l’idea di un luogo sacro, esoterico, quasi ai confini con il mondo dei morti. E in effetti la contrapposizione tra la vita e la morte sta proprio al centro dell’opera. I due poli opposti sono incarnati rispettivamente dai personaggi di Italia e di Arthur, l’una impegnata nel costruirsi un futuro in un luogo che sembra fermo nel tempo e l’altro, invece, immerso nel richiamo del proprio passato. Il protagonista sembra sempre parzialmente assente, mai completamente ancorato agli eventi “mondani” che si svolgono intorno a lui, il che fa immergere lo spettatore in una dimensione particolarissima, intessuta di simboli evocativi. Un viaggio in treno, una statua acefala, un filo rosso: tutto ha un significato nascosto.
Tuttavia non mancano i momenti più “umani”, specialmente quando al centro dell’obbiettivo stanno i tombaroli, con le loro dinamiche di gruppo, gli scherzi e gli affari molto terra-terra con Spartaco. Quest’ultimo personaggio dà la possibilità di parlare del tema del commercio illegale di manufatti antichi, un giro d’affari internazionale del quale i paesani tombaroli sono solo un minuscolo ingranaggio. La scena in cui l’identità di Spartaco è rivelata mostra la facoltosa realtà del mercato nero dell’arte, che soprattutto negli anni Ottanta e Novanta era estremamente fiorente. Anche qui, dunque, una contrapposizione: non solo vita e morte, ma anche sacro e profano, oggetti rituali e votivi venduti come merce qualunque al miglior offerente.
La regista racconta il tutto con una punta di assurdità, che dà alla narrazione un tono anche ironico e leggero, utile a stemperare, quando necessario, la lentezza e le tematiche sotterranee. Le situazioni bizzarre sono accompagnate da una fotografia sognante, che potrebbe ricordare per certi versi quella di Call me by your name oppure quella realizzata da Wes Anderson, anche se la saturazione dei colori è decisamente meno forte e la simmetria non così maniacale.
Insomma, Rohrwacher, cresciuta proprio nei luoghi in cui è ambientata la vicenda degli scapestrati tombaroli, ha raccontato in modo affascinante una tradizione locale mai vista sul grande schermo, dandole il tono familiare di una leggenda popolare.