Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.
Se n’è andato, quasi silenziosamente, come ormai alieno da un mondo che non gli apparteneva più. In un secolo di vita, Henry Kissinger, morto il 23 novembre di quest’anno, ha conservato i tratti di un potere tentacolare, che, insinuandosi nei più reconditi anfratti della politica mondiale, ha condizionato irreversibilmente la storia dei nostri padri e dei nostri nonni.
Nato a Furth, in Baviera, nel 1923, conosce l’America nella fuga dalla Germania nazista, a causa delle sue origini ebraiche. Negli USA compierà una scalata politica che lo condurrà, da componente del partito repubblicano, ad essere nominato Consigliere per la sicurezza e segretario di stato sotto due presidenze, quella di Nixon, dal 1969 al 1974, e poi quella di Ford, fino al 1977.
Nei suoi anni di mandato Kissinger incarna uno spirito statunitense antropologicamente ben definito, ricoprendo un archetipo, il ruolo di un burattinaio che intesse le fila di decisioni crude, spietate e sistematicamente orchestrate per manovrare lo scacchiere politico globale alla volontà della propria nazione.
In sé, era portatore di una grande idea, dominante nel suo periodo storico, che vedeva Washington come centro propulsivo e gravitazionale dell’agire diplomatico da ogni zona del mondo.
Aavvalendosi di un machiavellico modus operandi, i suoi interventi sanciranno quel dominio a stelle e strisce non solamente geografico, quanto ideologico e concettuale, che irreparabilmente invaderà anche l’Italia. L’influenza di Kissinger sulla Repubblica si costituisce di legami sottili, di connessioni nascoste, di quei fili tenuti sempre sospesi e sistematicamente adoperati per sfuggire all’incombenza di un dominio delle Sinistre.
I sospetti circa un’interferenza della Casa Bianca nelle situazioni interne alla penisola negli anni Settanta, si diramano fino ad un caso mediatico su cui tuttora aleggiano delle ombre: il golpe Borghese. Quello pilotato dal “Principe Nero” Junio Valerio Borghese, fu un principio di sovvertire l’ordine costituito, che poggiava sul radicalismo del “Terrorismo nero” che perpetrava fra le piazze , il quale si proponeva di arginare con violenza le forze di sinistra che crescevano di consensi, a seguito del movimento studentesco del ’68.
Il timore di un’effettiva “deriva rossa”, che avrebbe potuto concretizzarsi in un polo così strategicamente decisivo come quello italiano, non poteva lasciare indifferenti le alte cariche statunitensi. Anche se il Presidente Nixon non partecipò attivamente al tentativo del 1970, rivelatosi poi fallimentare, poiché consapevole della difficoltà della sua realizzazione, Herbert Klein, uno dei collaboratori più vicini allo stesso Kissinger, espresse la necessità di trovare in Italia una figura che garantisse l’allontanamento dalla sinistra, che lo stesso Borghese individuò nella personalità di Giulio Andreotti.
I timori statunitensi si scontrarono con delle dinamiche che si rivelarono protagoniste della politica interna italiana alla metà del decennio, le quali facevano presagire un dialogo fra la realtà rossa berlingueriana e quella democristiana.
Il fatidico incontro fra Kissinger e uno dei massimi promotori dell’avvicinamento fra le due forze partitiche, Aldo Moro, avvenuto nel settembre del 1974, segnò una presa di posizione unilaterale e definitiva del segretario di stato. La “strategia dell’attenzione” architettata da Moro sorgeva, come enunciato dallo stesso al Congresso della Democrazia Cristiana del 1969, «dal bisogno di rendere possibile, lasciando da parte l’ambiguità e comodità, il più ampio dialogo in vista di una nuova e qualificata maggioranza», perciò dalla ricerca spasmodica di un interesse comune che ponesse fine all’antagonismo fra le due maggiori forze partitiche dello Stivale; volontà che, però, infrangeva quell’acuto sistema anti-comunista messo in piedi dal governo americano, che si poneva con ferma e inscalfibile rigidità dinnanzi alle avanzate della sinistra, rimanendo intransigente su qualsiasi tipo di compromesso o apertura.
In quel colloquio, il monito di Kissinger fu di non curarsi di un possibile punto di contatto con i comunisti, elencando i casi di vari Paesi i cui leader, aperti a quel tipo di dialogo, vennero fatti assassinare. Il subdolo richiamo del repubblicano assomigliava ad un’imposizione, quella di seguire ciecamente le direttive impartire da un potere più alto, che a sé inglobava una realtà singola come quella italiana. L’eco delle parole di Kissinger non poteva che portare alla mente quell’11 settembre dell’anno passato, in cui, patrocinati dai Servizi Segreti Statunitensi, i militari cileni di Pinochet sovvertirono il governo socialista di Allende. In quella velata minaccia riecheggia un altro episodio le cui orme hanno lasciato il segno nell’avvenire del nostro Paese.
Se nello scambio con Moro, per far valere il potere statunitense, Kissinger usò la parola, è nel silenzio che lasciò il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli.
Poco prima che Nixon, nell’agosto del 1971, varasse la fine degli accordi di Bretton Woods sulla convertibilità del dollaro in oro, Carli intuì di attuare un’operazione di conversione in oro dei dollari detenuti dalla Banca d’Italia stessa. L’operazione scaturì una convocazione a Washington, direttamente per mano di Kissinger, nei confronti di Carli. Dopo ore trascorse nell’anticamera dell’ufficio del Segretario, ecco l’annuncio: Kissinger non l’avrebbe ricevuto. In quella non azione, in quel non dialogo, in quell’assenza di confronto, si declina un’onnipotenza debordante, di un uomo politico unico nel suo apparire e scomparire all’occorrenza, millantando una supremazia che Carli comprese immediatamente dopo la notizia: tornato in Italia, rinunciò alla conversione.
Con la sua rassegnazione, ci restituisce l’acume di una figura che ha cambiato radicalmente il mestiere del politico, orientandolo verso una prospettiva pragmatica, che impone al mezzo di condurre un unico e verticale fine; le cui ombre ci permettono di aprire uno spauracchio sulle dinamiche oscure, di un’Italia annebbiata dallo scontro civile degli anni di Piombo, la cui sovranità, fra le aspre parole di un incontro, e fra le ore passate ad attendere un incontro mai avvenuto, si è rivelata più fragile che mai.
Articolo di Marco La Rosa