Del: 20 Gennaio 2024 Di: Edoardo Fazzini Commenti: 0

Nel mondo politico nulla è inevitabile. A seguito della Guerra Fredda, gli Stati Uniti si sono resi protagonisti di un progetto di rinnovamento globale, con l’idea di modellare un nuovo mondo con il minimo di conflitti armati e con un’unica nazione alla guida economico-politica globale. Un piano di creazione di un sistema unipolare che oggi, nel 2023, appartiene al passato.

Il sistema statunitense, infatti, ha fronteggiato dei momenti di crisi dal punto di vista strategico, tra cui si evidenziano i fallimentari interventi in Iraq, Siria e Afghanistan. Ancor di più, l’elemento che da sempre ha dato credibilità al modello statunitense, vale a dire lo strapotere economico, è stato messo in discussione dal rallentamento del processo di crescita economica costante degli Stati Uniti, ovvero nel periodo che si estende tra l’inizio della crisi del 2008 e la fase della crisi pandemica che arriva ai giorni nostri.

Difatti, il tasso di incremento annuale del PIL reale statunitense, che fino ai primi anni 2000 aveva toccato per più volte 4%, dopo il -2,6% del 2009 non è più cresciuto come prima, e negli anni 2010 si è costantemente attestato attorno al 2%, fino alla nuova caduta verificatasi all’inizio della pandemia[1] , che ha creato un nuovo ciclo di ulteriore instabilità economica di fronte al quale i principali analisti mostrano preoccupazione anche successivamente a risultati positivi nel breve periodo (come la recente crescita ad un ritmo annuo del 4,9% del PIL nel terzo trimestre 2023).

Di fianco a questa realtà si è autodeterminata una potenza economica e politica che mette a repentaglio la primazia statunitense: la Repubblica Popolare Cinese.

L’involuzione politica statunitense e la fine dell’american power

Gli Stati Uniti hanno sempre potuto disporre di molti elementi che ne hanno determinato la supremazia globale: popolazione in crescita, migliori università e istituti di ricerca al mondo, esercito ed economia più performanti al mondo, risorse abbondanti e una società aperta che attrae investimenti.

L’elemento che mostra la rottura rispetto al passato è l’ottica con cui il mondo guarda agli Stati Uniti e con cui gli Stati Uniti guardano al mondo. Sondaggi del Pew Research Center, infatti, hanno dimostrato come la maggioranza dei giovani cittadini europei osservino non solo la Cina, ma anche gli Stati Uniti, con un occhio fortemente critico; in particolare, la maggior parte dei giovani francesi, tedeschi e britannici presi sotto esame non apprezzano il ruolo degli Stati Uniti di “poliziotto del mondo ”. Contemporaneamente, gli Stati Uniti hanno dovuto fronteggiare i cambiamenti internazionali successivi alla Guerra Fredda che, in alcuni casi, hanno peggiorato le relazioni con altri paesi.

Né è l’emblema il Brasile, tra i principali partner commerciale degli Stati Uniti nell’America del Sud e storicamente in buone relazioni con Washington. L’ingresso del Brasile nei BRICS ha portato a una diminuzione della cooperazione tra Brasile e Stati Uniti, con rapporti che restano forti e saldi per entrambi gli attori ma che, da un punto di vista politico, vedono una minore coesione. A tal riguardo, sono recenti le invocazioni dell’amministrazione americana al governo di Brasilia a non acquistare il vaccino russo per il Covid-19, Sputnik, temendo forse una maggiore presenza russa nell’area.

Un elemento importante, tra i fattori che hanno portato all’ascesa della competizione militare globale e alla ricerca di alternative al modello economico americano, è l’insieme degli errori commessi dagli USA a partire dal 2001. Da quando, cioè, l’amministrazione americana ha smesso di puntare al consolidamento della propria posizione, a favore della concentrazione completa delle proprie forze contro attori non statali e nazioni considerate come ostili.

In politica estera, negli anni ’90, gli Stati Uniti si sono concentrati nel consolidamento del proprio successo, favoreggiando il rafforzamento di un’Europa democratica, unita e pacifica insieme agli alleati europei. Progredendo anche nel miglioramento dei propri rapporti con Giappone, Corea del Sud, Filippine, Indonesia e Taiwan. Così contribuì alla diffusione della globalizzazione, ridefinendo il ruolo della NATO dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

Tuttavia, a partire dagli eventi dell’11 settembre 2001, con gli attacchi terroristici contro gli Usa, la strategia è cambiata. L’amministrazione statunitense, in particolare con l’inizio della “Guerra al terrore” sotto il presidente George W. Bush, ha iniziato a concentrarsi su attori regionali e gruppi terroristici decentralizzati, che rappresentavano minacce alla sicurezza nazionale. Questo cambio di focus ha portato a interventi militari in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003, con l’obiettivo di contrastare il terrorismo internazionale e promuovere la democrazia. Però, questi interventi hanno anche generato un notevole dibattito e critica sia a livello nazionale che internazionale. L’opera di Bush ha trovato continuità con l’amministrazione Obama, ha accentuato la necessità di affrontare minacce come l’ISIS (Stato Islamico), seppur cercando di ridurre la dipendenza dagli impegni militari su scala globale.

Infatti, il Watson Institute for International and Public Affairs della Brown University, ha stimato che, complessivamente, gli Stati Uniti hanno speso circa 8 trilioni di dollari nelle guerre, in un periodo compreso tra l’11 settembre 2001 e il 2022 (per comprendere la grandezza di queste cifre, basti pensare che superano il quadruplo del PIL italiano del 2022). L’enorme spesa nel settore militare mostra come, nei processi di policy-making statunitensi, prevalgano i piani militari sulle altre proposte di allocazione delle risorse pubbliche.

La radicalizzazione delle posizioni nel campo della politica di difesa è tra gli elementi di divisione nella politica interna statunitense. Una divisione netta tra chi sostiene la necessità di tagliare i costi militari per fattori tanto politici quanto economici (la spesa militare è una delle principali cause della crescita del debito pubblico statunitense) e chi difende la necessità di investire nel militare per difendere la pace.

Questa divisione nelle opinioni sul mondo militare è emblematica e significativa, ma è solo una delle facce di diversità nelle opinioni estrema, che si protrae in ogni ambito e che è imponente tanto nella politica estera quanto in politica interna.

Gli Stati Uniti, nazione con un sistema bipartitico, hanno sempre visto un certo livello di unione politica, di generale rispetto per chi è all’Ufficio Ovale della Casa Bianca, e una buona capacità dei due partiti di lavorare in sostanziale continuità. Negli ultimi anni, quanto appena descritto si è capovolto: lo spaccato tra Democratici e Repubblicani si è polarizzato e anche all’interno dei singoli partiti non c’è più coesione.

A tal riguardo, è stato eclatante quanto accaduto il 3 ottobre 2023: la Camera dei Rappresentanti, a maggioranza repubblicana, ha approvato una mozione di sfiducia nei confronti dello speaker repubblicano Kevin McCarthy, in carica solo dal 7 gennaio 2023. Questo, oltre ad essere un inedito nella politica americana, mostra l’appiattimento sulle posizioni estreme del Partito Repubblicano, dal momento in cui il voto di otto parlamentari repubblicani è stato cruciale per togliere dal proprio ruolo McCarthy.

Altrettanto significativo è quanto è accaduto successivamente: non c’è stata compattezza nel partito e il successore di McCarthy, Mike Johnson, è diventato speaker  solo il 25 ottobre 2023, non prima di una serie di scrutini senza frutto e delle candidature scartate dei rappresentanti Steve Scalise, Jim Jordan e Tom Emmer

A livello quotidiano, la radicalizzazione delle posizioni e l’aumento dell’ambiguità politica statunitense è rappresentata anche da quanto accade in Texas: autosufficiente a livello di risorse, economicamente in crescita e con città come Houston e Dallas che diventano sempre più dinamiche, Questo stato ha assistito al progressivo aumento del flusso migratorio, sia proveniente dal vicino Messico sia da stati federati statunitensi storicamente a maggioranza democratica come la California. Questo ha portato a una progressiva ascesa dei democratici in uno stato storicamente repubblicano: se Obama perse le elezioni del 2012 con il 41,4% dei voti democratici, Hillary Clinton perse quelle del 2016 con il 43,2% e Biden perse quelle del 2020 con il 46,5%.

In sintesi, uno stato in profonda evoluzione, e di fronte a questa evoluzione i Repubblicani al potere rispondono duramente: si radicalizzano ulteriormente, con politiche estreme sull’aborto, con leggi che permettono di circolare liberamente per strada con le proprie armi e, in generale, con una netta incapacità di scendere al dialogo, al compromesso, dividendo anche la popolazione.

La silenziosa ascesa della repubblica popolare cinese tra ieri, oggi e domani

Di fianco alla realtà americana è asceso un nuovo gigante politico-economico, uno stato che si è fortemente evoluto nel giro di pochissimo tempo senza che gli analisti potessero prevedere un cambiamento globale di questa portata. Infatti, oggi la Cina ha aperto un nuovo terreno di dialogo.

La crescita cinese è iniziata nel momento in cui la Repubblica si è aperta al mondo, dopo la fine dell’era Mao. Infatti, la nuova Cina di Deng Xiaoping, ricca di risorse e di opportunità, aprendosi all’Occidente ha favorito l’ingresso di un enorme numero di fondi finanziari internazionali, che arrivarono in massa con l’obiettivo di trarre guadagno nel medio termine partendo da un presupposto: dove arriva il capitalismo, arriva la democrazia. La Cina ha sfruttato queste risorse per crescere, soprattutto a partire dagli anni ’90, con una crescita che inizialmente appariva forte ma comunque controllata e che poi, a partire dal 2012, è esplosa.

Il 2012 è un anno chiave perché il 15 novembre 2012 Xi Jinping diventa Segretario del Partito Comunista Cinese. La figura di Xi Jinping è fondamentale nelle dinamiche politiche cinesi perché la Cina di oggi è il risultato delle decisioni prese in maniera assolutista dal Segretario, con i soli limiti burocratici e amministrativi che separano la sua leadership dal sistema puramente assoluto in stile maoista.

Se la Cina ha videocamere che osservano ogni metro quadro del proprio territorio, se la Cina si è chiusa completamente al mondo nel periodo della politica zero-covid, se viola i diritti umani a danno della popolazione uigura e investe nelle AI per potenziare il proprio settore militare, questo è per il volere di Xi Jinping.

Però, c’è un’altra faccia della medaglia: se la Cina oggi è il primo partner commerciale di 120 nazioni, se è il più grande esportatore al mondo, se ha trasformato città antiche in metropoli all’avanguardia, anche questo è avvenuto per il volere di Xi Jinping.

C’è una politica che aiuta a comprendere come la Cina agisce e come la Cina è arrivata dove è oggi: la Belt and Road Initiative, o Nuova via della seta.

Questa politica internazionale, annunciata in una visita in Kazakistan da Xi nel settembre 2013, ha portato la Cina ad investire nelle infrastrutture di 151 Paesi, per lo più legate al settore dei trasporti (come ponti, strade, aeroporti, tunnel ferroviari e porti commerciali). Per avere un’idea della portata di questa politica, le nazioni parte del progetto rappresentano il 75% della popolazione globale e più della metà del PIL mondiale.

La politica, inizialmente paragonata al Piano Marshall, ha visto la Cina operare con estremo cinismo, un cinismo silenzioso che è stato un altro importante elemento della crescita cinese.

Si osservi quanto fatto in Montenegro: lo stato chiese sostegno alla Cina per la creazione di un nuovo sistema autostradale, sostegno che arrivò dalla Repubblica Popolare Cinese che, però, chiese in cambio un pagamento economico sproporzionato rispetto alle possibilità economiche montenegrine. Così, il governo montenegrino fu costretto a far appello al Fondo Monetario Internazionale, innalzando di molti punti percentuali il debito pubblico della nazione balcanica.

Il caso del Montenegro non è un unicum e, anzi, ci sarà continuità nel futuro della politica estera cinese, vista anche la riconferma nel 2022 per la terza volta – nonostante il limite dei due mandati – di Xi Jinping. da aggiungere anche le continue sparizioni di elementi del Partito visti come potenziali minacce del Capo di Stato.

Prospettive: come si può evolvere il quadro e perché non è politicamente sensato il paragone con la Guerra Fredda

La potenza di questi due attori internazionali è grande e incontrastata. Da un lato ci sono gli Stati Uniti, “the Greatest country”, la Nazione che resta influente, il paese delle innovazioni e del cambiamento. Dall’altro lato c’è la Cina, il nuovo modello, l’alternativa, un paese che aggira le regole perché consapevole di non poter essere toccato: infatti, se si sanziona Pechino e se si mette il bastone tra le ruote dell’economia cinese, crolla l’economia globale.

In questo quadro, verrebbe da pensare che sia già iniziata una nuova Guerra Fredda 2.0: ma si tratterebbe di una semplificazione. La Guerra Fredda vedeva la presenza di una competizione per l’egemonia e per l’influenza politica ed economica globali ma allo stesso tempo si reggeva su un pericoloso equilibrio: nessuno dei due modelli – capitalismo statunitense e comunismo sovietico – avrebbe dovuto prevalere sull’altro.

Oggi non assistiamo ad una competizione in stile Guerra Fredda, per almeno due ragioni: non si può pensare di imporre un modello radicalmente opposto alla democrazia capitalista, spingendo in maniera completa i paesi ad adottare il modello cinese come proprio.

Una valida spiegazione di questo concetto è la tesi espressa dal politologo ed economista egizo-francese Samir Amin al World Social Forum del 2013, secondo cui il capitalismo liberale si basa su sette principi: governance dell’economia da parte di imprese private, liberalizzazione del mercato del lavoro, privatizzazione dei servizi sociali, riduzione del prelievo fiscale, gestione privata del credito, bilancio pubblico in equilibrio e riduzione del deficit. Si ritiene che essi siano applicabili a tutte le società del pianeta modernizzato. Questi principi, di fatto, sussistono nelle retoriche nazionali del “pianeta mondializzato” e, seppur con differenze nelle applicazioni di nazione in nazione, restano elementi alla base delle strutture governative. Pertanto, almeno nel medio periodo, resta difficile immaginare capovolgimenti alla base dei sistemi nazionali tali da trasformare democrazie capitaliste in nazioni sviluppate ad immagine della Cina.

Infatti, la democrazia liberale è stata messa in discussione ma non attraverso un sistema diametralmente opposto. Ne è l’effetto quella che il giornalista e autore esperto di politica internazionale Fareed Zakaria ha definito “democrazia illiberale”: una forma di stato che sfrutta una base democratica di legittimità ma che oltrepassa i vincoli di potere e si avvicina, nella sostanza, a un sistema autocratico. Due esempi netti di questa nuova realtà politica sono la Turchia di Erdoğan e l’Ungheria di Orbán.

Il motivo per cui il modello di democrazia illiberale ascende agevolmente, mentre è inimmaginabile l’ascesa di un modello cinese fuori dalla PRC è semplice: la democrazia illiberale mantiene la presenza delle elezioni ma limita le libertà e concentra il potere su pochi individui, applicando la legge selettivamente. In questo modo, i cittadini si sentono ancora parte di un processo di decision-making e, seppur comprendendo le differenze con la democrazia liberale, risultano più accondiscendenti verso un sistema che apporta modifiche da un punto di vista pratico ma non teorico. Cioè la democrazia illiberale si sviluppa “dietro le quinte” della politica, difficilmente si concretizza attraverso cambiamenti costituzionali o amministrativi.

D’altra parte, il modello politico-economico cinese si basa su un sistema a partito unico, in cui il Partito Comunista Cinese detiene il potere e il governo adotta un approccio di gestione completa dell’economia e dello stato. Da sommarsi poi politiche che contrastano le libertà e che sfociano nella sorveglianza di massa e nel controllo dell’informazione. Un modello di questo tipo sarebbe difficilmente esportabile in altri paesi perché minerebbe alle basi degli stati-nazione e dovrebbe passare per cambiamenti legislativi imponenti che troverebbero un minuto appoggio da popolazione e istituzioni.

Questi elementi sono cruciali per comprendere come differisce la tensione tra USA e Cina dalla Guerra Fredda.

Se le analogie che caratterizzano la due competizioni sono molteplici – dimensione ideologica della competizione e rivalità nella contesa del “Sud del mondo” in primis – ci sono molti altri elementi che rendono questa estremamente differente dalla Guerra Fredda. esempi sono i rapporti multilaterali che le economie globali applicano, collaborando sia con Cina sia con Stati Uniti; la mancanza di esportazione ideologica della Cina (grande differenza con la dottrina sovietica di esportazione del comunismo).

Anche l’economia cinese è un elemento da tenere in considerazione: essa è molto più integrata nei sistemi economici internazionali rispetto a quella sovietica; è cresciuta fortemente anche grazie alla cooperazione tecnologica, energetica e umanitaria che la Cina ha applicato dopo la fine del maoismo. Ancora, gli stessi capi di stato Xi Jinping e Joe Biden hanno affermato, nel recente summit a San Francisco, la volontà di accordarsi per evitare una nuova guerra fredda.

La Cina ha dei limiti.

Infatti, la Cina si trova a dover affrontare un problema crescente: quello della crisi demografica, conseguenza di decine di anni di politica del figlio unico. Inoltre, la gestito in maniera critica la crisi della pandemia, pur uscendone con un’economia ancora in crescita. Nonostante la divergenza degli opinionisti nelle previsioni sull’evoluzione della crescita economica cinese nel breve e medio periodo, c’è una convergenza nel prevedere un progressivo rallentamento già dai prossimi anni, fino ad arrivare ad una situazione di stagnazione nel lungo periodo. Questo è un dato che scoraggia fortemente gli investitori e mostra una mancanza di stabilità nel sistema economico della PRC.

Interessante per comprendere ulteriormente il rapporto tra Cina e USA, è l’analisi dello scambio di battute avvenuto tra le leadership dei due paesi a seguito del Discorso dello Stato d’Unione del 2023 del presidente Biden. Nel discorso, Biden ha parlato a più riprese della Cina di Xi Jinping affermando di aver chiarito col presidente che gli USA “cercano la competizione non il conflitto”. La risposta cinese è arrivata con le parole del portavoce del ministero degli esteri, Mao Ning, che ha dichiarato la Cina contraria a definire i propri rapporti con gli Stati Uniti solo in termini di concorrenza. Secondo Mao Ning, la Cina difenderà i propri interessi e gli Stati Uniti dovrebbero collaborare per promuovere il ritorno delle relazioni bilaterali su un percorso di sviluppo sano e stabile.

Concludendo, analizzato il quadro nel suo insieme, appare evidente che la situazione sia di competizione e di rivalità tra le due superpotenze, una rivalità sia economia sia politico-strategica. Tuttavia è da escludersi un ritorno al sistema bipolare e alla divisione del mondo, anche perché la maggior parte dei paesi che sono legati a Pechino intrattengono relazioni anche con Washington.

Allora, perlomeno fino a una potenziale escalation militare nell’area di Taiwan o del Mar Cinese Meridionale, è corretto ragionare in termini di coesistenza. Prendendo atto dell’evoluzione rispetto al post-Guerra Fredda ma comprendendo la novità della realtà introdotta dalla Cina come attore politico, cioè vedendo la Cina non come l’anti-modello ma come una nuova presenza.

Articolo di Edoardo Fazzini

Edoardo Fazzini
Sono uno studente al secondo anno di Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano, amante delle tematiche geopolitiche internazionali e dell’informazione scientifico-politica.
Penso che concretizzare la mia passione sia qualcosa di bello, perché di fronte a crescenti sfide l’informazione deve progredire, e solo conoscendo la realtà e diffondendo quanto si apprende si può immaginare un futuro migliore.

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