L’abbiamo imparato con il 2020, iniziato come ogni altro anno e, nel giro di due mesi, assediato da una pandemia senza precedenti nella storia contemporanea: parecchie cose sono imprevedibili e, per usare una frase ormai entrata nel gergo, non siamo in grado di «vederle arrivare».
Possiamo però cercare di tenere gli occhi aperti e mantenere quanto più possibile alto il livello di attenzione: e allora iniziamo questo 2024 passando in rassegna almeno alcuni dei luoghi e dei personaggi che potrebbero sorprenderci nei prossimi mesi.
L’Iran di Jina Amini
Era il settembre 2022: Jina Amini, 22enne di origine curde, veniva arrestata dalla polizia morale iraniana per non aver indossato «correttamente» il velo. Il 16 settembre Jina moriva in conseguenza del pestaggio subito.
L’ennesima vita schiacciata.
È stato questo a rianimare la società civile iraniana, a spingerla a sollevarsi contro la Repubblica teocratica che governa da più di 40 anni, da quando cioè, nel 1979, il corrotto scià Reza Pahlavi fu spodestato e l’ayatollah Khomeini prese il potere: il viso di Jina Amini, quel ciuffo di capelli che l’ha condannata, sono stati il fiammifero che ha riacceso un incendio mai davvero sopito.
Da allora e per tutto il 2023 le manifestazioni hanno attraversato il Paese, animate da ragazzi e ragazze, giovani e meno giovani, generazioni unite in rivendicazione dei diritti di tutti, di un futuro diverso:
a raccogliere le loro voci e il loro sogni la canzone Baraye, composta dal musicista Shervin Hajipour, diventata un inno di libertà dall’eco internazionale.
Nonostante le uccisioni, le violenze e gli abusi sessuali, nonostante i manifestanti siano stati presi di mira agli occhi e ai genitali, per causare loro quanto più dolore possibile e per “marchiarli”, renderli riconoscibili come ribelli, «nemici di dio».
Nonostante le incarcerazioni – tra cui quelle delle giornaliste Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi, che per prime raccontarono del caso Amini –, nonostante le condanne a morte e gli avvelenamenti di migliaia di studentesse.
Dal carcere continua ad alzare la voce anche Narges Mohammadi, attivista per i diritti umani e delle donne, premiata quest’anno con il Nobel per la Pace: Mohammadi non ha potuto ritirarlo di persona, così come Jina Amini non ha potuto ritirare il Premio Sakharov per la Libertà di Pensiero.
Non dovremmo, nel 2024 e mai più, voltare lo sguardo: in Iran qualcosa è cambiato per sempre, un capitolo si è chiuso. Resta da capire quando potrà iniziarne uno nuovo.
Gli USA di… Donald Trump?
Il 2024 sarà l’anno delle presidenziali statunitensi, una tornata elettorale che – considerato il peso cruciale degli USA – sarà decisiva per il mondo intero.
Nonostante le molteplici inchieste e incriminazioni contro Donald Trump e nonostante il New Yorker ne abbia denunciato la «retorica fascista», prospettando la possibilità che un suo ritorno alla Casa Bianca avvii negli USA un’inedita fase di autoritarismo, i sondaggi continuano a darlo come favorito. Il populismo sembra dunque riconfermarsi come la carta vincente e i cittadini statunitensi potrebbero a breve darci prova di quanto la memoria umana sia corta.
Finora Trump si è d’altro canto sottratto a qualunque confronto con gli altri candidati repubblicani: mentre sembra ormai declinata definitivamente la figura di Ron DeSantis, il timore nutrito nei confronti dello stesso Trump ha fatto convergere i suoi nemici intorno all’unica candidata donna, Nikki Haley, che sta raccogliendo consistenti finanziamenti (tra cui quelli del magnate Charles Koch).
Per il momento sembra invece uscito dai radar mediatici Vivek Ramaswamy, che aveva fatto parlare di sé in occasione dei dibattiti per le primarie repubblicane.
Un tentativo di frenare l’avanzata di Trump si è avuto a fine dicembre in Colorado e Maine, dove l’ex Presidente è stato escluso dalla corsa alle presidenziali facendo leva sul 14esimo emendamento alla Costituzione: a prendere la decisione definitiva sarà però la Corte Suprema Federale e la partita appare dunque tutt’altro che chiusa.
La resistenza ucraina e la Russia verso le elezioni presidenziali
Ancora non sappiamo quali risvolti potrà assumere il conflitto russo-ucraino ma il 2024 si profila come un anno cruciale: già quasi due anni sono passati dall’inizio dell’invasione russa, avviata il 24 febbraio 2022, e Stati Uniti e Unione Europea non sembrano più così saldi nella loro decisione di continuare a supportare Kiev indefinitamente.
Nonostante l’amministrazione Biden abbia annunciato nuovi aiuti militari destinati all’Ucraina, per un valore complessivo di 250 milioni di dollari, si tratta dell’ultimo finanziamento erogabile: il dibattito interno al Congresso per raggiungere un accordo sullo sblocco di ulteriori 60 miliardi di dollari appare infatti ad un punto morto per via delle resistenze opposte da numerosi repubblicani, intenzionati ad ottenere in cambio l’introduzione di misure restrittive contro l’immigrazione e per la difesa dei confini.
Lo scorso 14 dicembre, lo stanziamento da parte dell’UE di 40 miliardi di euro di aiuti per l’Ucraina – 33 miliardi in forma di prestito e 17 miliardi in forma di donazione – è stato bloccato dal veto del Presidente ungherese Viktor Orban: la questione verrà ridiscussa in gennaio.
Ad aggiungere carne al fuoco, le elezioni presidenziali che dovrebbero tenersi nel 2024 sia in Russia che in Ucraina: mentre è probabile che la tornata non si terrà in Ucraina, per evitare di dividere il Paese in un momento così critico, Vladimir Putin ha già mosso i suoi passi per escludere dalla competizione i candidati più pericolosi e sarà dunque con tutta probabilità riconfermato in carica per il suo quinto mandato consecutivo.
Javier Milei e la nuova Argentina
Dal 10 dicembre 2023 l’Argentina ha ufficialmente un nuovo presidente: Javier Milei, al centro del dibattito fin dall’inizio della sua campagna elettorale per via del carattere aggressivo e delle promesse provocatorie, tra cui quella di tagliare «la casta» e la spesa pubblica, strillata in occasione dei comizi brandendo una motosega.
Paladino della liberalizzazione più sfrenata, al punto da proporre anche quella della vendita di organi nonché la «distruzione» della Banca centrale, cade in contraddizione quando si tratta del diritto di aborto: la libertà di donne e persone con utero di autodeterminarsi non è inclusa nel suo programma.
A fine dicembre, Milei ha rigettato ufficialmente l’invito ad aderire al gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e annunciato la propria intenzione di avvicinarsi agli USA e sostituire il dollaro al peso argentino, già fortemente svalutato.
Ha inoltre presentato un progetto di legge composto da 664 articoli, volto a riformare in modo radicale numerosi settori, in primis quello economico e finanziario ma anche amministrativo e sociale.
Un elemento di particolare gravità è rappresentato dalla campagna negazionista condotta da Milei e dalla sua vice, Victoria Villarruel:
non soltanto in merito al cambiamento climatico bensì anche ai desaparecidos della dittatura militare, che ha governato l’Argentina dal 1976 al 1983.
I due sostengono infatti che le persone scomparse per mano dello Stato siano state “solo” 8000 – il numero ufficialmente accertato dal rapporto Nunca Mas, prodotto dalla commissione CONADEP – e non, com’è ormai ampiamente provato, oltre 30.000.
Se, come già si diceva in merito al caso Trump, il populismo pare all’apice della propria fortuna, non dovrebbe stupire che Milei sia stato eletto nonostante segnali quantomeno preoccupanti: al di là dello strano rapporto che lo lega alla sorella e ai suoi cani, tutti clonati dall’amato Conan, aveva destato inquietudine un’intervista nella quale l’allora candidato presidenziale aveva mostrato segni di squilibrio mentale.
Per chi volesse approfondire il tema dei desaparecidos in Argentina, rimandiamo al podcast Figlie, condotto da Sara Poma insieme a Sofia Borri.
Israele e Palestina, Netanyahu sull’orlo del baratro
Fin dal primo momento si è parlato di un nuovo 11 settembre: e del resto possiamo starne certi, l’attacco lanciato dal gruppo terroristico Hamas contro Israele lo scorso 7 ottobre rappresenta già una cesura e un punto di non ritorno non solo per la storia dello Stato di Israele, della Palestina e dell’area mediorientale ma anche per la storia di tutti noi, come comunità internazionale e come umanità.
Senz’altro rappresenterà un punto di non ritorno nella vita privata e politica di Benjamin Netanyahu, già contestato prima dell’attacco terroristico per via della stretta autoritaria che il suo governo fondamentalista e di estrema destra stava imprimendo al Paese, in primis esautorando il potere giudiziario a vantaggio dell’esecutivo: per tutta l’estate sono state decine di migliaia le persone israeliane che hanno partecipato alle manifestazioni contro la contestata riforma della giustizia.
Se il popolo palestinese protesta ormai da mesi contro le autorità, accusate di non impegnarsi sufficientemente per la liberazione e messa in salvo degli oltre 100 ostaggi ancora prigionieri a Gaza, Netanyahu è inoltre finito al centro delle polemiche per aver adottato una politica ambigua:
avrebbe infatti permesso ad Hamas di ricevere finanziamenti e di rafforzarsi a discapito dell’Autorità Nazionale Palestinese – guidata dal presidente Mahmoud Abbas – e allo scopo di impedire la creazione di uno Stato di Palestina.
A inizio dicembre è inoltre emerso che le autorità militari e l’intelligence israeliane erano venute a conoscenza dei piani di attacco di Hamas all’incirca un anno prima della messa in atto: proprio la sottovalutazione del reale pericolo sarebbe quindi una concausa del massacro verificatosi il 7 ottobre.
A conti fatti, forse al primo ministro Netanyahu conviene prolungare la guerra quanto più possibile: perché non importa quanto sangue sarà versato per ottenere vendetta, l’esaurirsi dei combattimenti porterà in ogni caso con sé anche l’esaurirsi della sua parabola politica.
India, l’alleato che tutti vorrebbero
Membro dei BRICS+ nonché del G20 – il cui summit quest’anno è stato ospitato proprio a New Delhi – nel 2023 l’India ha visto la sua crescita economica proseguire a ritmi sostenuti, fino a toccare il 7.8%; sempre nel 2023, la sua popolazione ha raggiunto quota 1.4 miliardi, superando quella della Cina e garantendo allo Stato un’ampia base di persone in età lavorativa, che continuerà ad ampliarsi fino a oltre metà secolo.
Corteggiata da Europa e Stati Uniti ma allo stesso tempo ancora legata a Mosca, che le fornisce armi e risorse energetiche, l’India è sempre più in competizione con la vicina Cina per l’egemonia sul Sud Globale e nello stesso gruppo dei BRICS, per ora dominato da Pechino. Tra i due Stati si sono inoltre verificati alcuni scontri nei territori contesi del Ladakh e del Tibet, dove negli ultimi anni è cresciuto il livello di tensione.
A preoccupare sono oggi le tendenze autoritarie dell’attuale primo ministro Narendra Modi – al potere dal 2014 – e l’ideologia nazionalista indù del suo partito, il Bharatiya Janata Party, a discapito della minoranza di fede musulmana:
contro di essa si sono moltiplicati gli episodi di violenza. Lo scorso 11 dicembre la Corte Suprema ha confermato la decisione di Modi di revocare l’autonomia alla provincia del Jammu e Kashmir, a maggioranza musulmana: la decisione della Corte non sarebbe altro che un sintomo dell’alterazione dei sistemi di checks and balances condotta negli anni dal governo Modi, che ha “declassato” il Paese allo status di «democrazia parziale».
Tra le altre misure anti-democratiche attuate da Modi, basti ricordare la criminalizzazione del dissenso – che ovunque dovrebbe rappresentare un motivo di allarme non ignorabile – la repressione dell’opposizione e il controllo sui media e sulla cultura.
Nonostante ciò e anche per via del miglioramento del sistema di welfare, il successo del primo ministro presso la maggioranza della popolazione indiana non sembra essere stato intaccato: il Bharatiya Janata Party, ha già ottenuto alcune significative vittorie elettorali a inizio dicembre, indebolendo il National Congress Party, principale esponente dell’opposizione, e avviandosi verso la prossima tornata di aprile 2024 con ottime possibilità di vittoria. Secondo gli osservatori Modi sarà quasi certamente riconfermato per il suo terzo mandato.
Armenia, Nagorno Karabakh, Azerbaijan
Prima che i riflettori si spostassero su un’altra parte del mondo, in settembre 2023 l’Azerbaijan ha avviato e portato a termine con successo, nel giro di appena due giorni, un’operazione militare contro la regione separatista a maggioranza armena del Nagorno Karabakh: dopo il cessate il fuoco mediato dalle forze russe sul territorio, il presidente Samvel Sahramanyan firmò un decreto che sanciva lo scioglimento ufficiale della repubblica e gran parte della popolazione decise di fuggire verso l’Armenia, per timore che l’Azerbaijan mettesse in atto politiche di pulizia etnica.
In ottobre, il Segretario di Stato USA Antony Blinken aveva rivelato ad alcuni deputati del timore che l’Azerbaijan potesse decidere di invadere l’Armenia, allo scopo di creare un corridoio per unire il proprio territorio a quello dell’exclave di Nakhichevan.
Contemporaneamente, e non a caso, l’Armenia decideva di aderire alla Corte Penale Internazionale.
Piccola curiosità: da poco è stato annunciato che il prossimo summit sul clima, la COP 29, si terrà proprio in Azerbaijan.
Taiwan, tra USA e Cina
L’isola di Taiwan continuerà ad essere al centro dei dibattiti ancora per molto: almeno lo speriamo, dal momento che forse smetteremo di parlarne solo quando Pechino darà infine seguito alle sue dichiarate intenzioni di occuparla e riannetterla entro il 2049.
Nel 2049 cadrà infatti il centenario dalla vittoria del Partito Comunista di Mao nella guerra civile, dalla fondazione della Repubblica Popolare e dalla fuga dei nazionalisti guidati da Chiang Kai-shek a Formosa – cioè Taiwan.
Qui fu quindi istituita la Repubblica di Cina, inclusa nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU fino a quando, nel 1971, gli USA di Richard Nixon e Henry Kissinger smisero di opporsi strenuamente alla riassegnazione del seggio alla RPC.
Taiwan continua dunque a rappresentare un motivo di contesa tra Cina e Stati Uniti; anche qui in gennaio si terranno le elezioni presidenziali, alle quali l’opposizione si presenterà divisa.
Gli altri fronti caldi
Sono innumerevoli nel mondo, se ne parla quando accade qualcosa di particolarmente clamoroso e ce li si dimentica per il resto dell’anno: ma non si può trascurare che, in una fase di alterazione degli equilibri di potere, il rischio di deflagrazione è ovunque possibile.
E i costi umani sono sempre altissimi.
Tra gli altri basti citare il Sudan, dove è in corso una violenta guerra civile, il Niger, dove in luglio una giunta militare guidata dal generale Abdourahmane Tchiani si è imposta al potere tramite golpe, spodestando il Presidente eletto Mohamed Bazoum, e il Mali, dove l’operazione MINUSMA delle Nazioni Unite si è conclusa quest’anno come richiesto dalla giunta insediatasi nel 2021, con il terzo golpe consecutivo.
In Egitto, nel silenzio di una comunità internazionale distratta da molto altro, lo scorso 18 dicembre il contestato e autoritario presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha vinto le elezioni presidenziali convocate anticipatamente – avrebbero infatti dovuto tenersi in aprile 2024 – e ha così ottenuto un terzo mandato della durata di 6 anni. Le opposizioni hanno definito la tornata «una farsa».
Da non sottovalutare è infine l’area balcanica, mai davvero pacificata.
Di recente si sono svolte violente proteste in Serbia, a seguito delle elezioni – anche in questo caso accusate di irregolarità – che il 17 dicembre hanno riconfermato in carica il presidente uscente Alexander Vucic, per il Partito Progressista (centrodestra): sotto il suo governo si sono frequentemente verificate tensioni con il Kosovo, la cui indipendenza non è mai stata riconosciuta.
In Bosnia Erzegovina invece il Presidente della Repubblica serba Milorad Dodik è noto per le sue frequenti minacce di secessione e ha affrontato un processo per non aver rispettato l’autorità dell’Alto Rappresentante dell’ONU.