Del: 24 Febbraio 2024 Di: Clara Molinari Commenti: 0
Boicottaggio culturale, è giusto interrompere i rapporti con gli atenei israeliani?

Martedì 14 novembre cinque membri del Senato Accademico – tra cui tre rappresentanti delle liste universitarie SU-UDU, UniSì e Studenti Indipendenti – hanno presentato una mozione con cui hanno avanzato una serie di richieste volte a far assumere al nostro Ateneo una posizione netta nei confronti del conflitto israelo-palestinese.

Tra le varie proposte, ha destato particolare attenzione quella di rescindere l’accordo interuniversitario di mobilità che UniMi intrattiene con l’Università israeliana Reichman, ritenuta responsabile di non aver preso le distanze dall’operato e dalle politiche belliche di Netanyahu. Questa richiesta non ha avuto seguito, ma ha lasciato dietro di sé un acceso dibattito in merito a quali siano gli strumenti più efficaci che noi studenti possiamo utilizzare per far sentire la nostra voce di fronte a ciò che non ci sembra giusto.

Può essere il boicottaggio culturale, e quindi l’interruzione di accordi con altri atenei, uno di questi strumenti? Per rispondere a questa domanda, abbiamo incontrato sia i rappresentanti delle liste firmatarie della mozione sia i rappresentanti delle liste che si sono espresse a sfavore.

L’intervista è stata editata per motivi di brevità e chiarezza.


La finalità con cui la mozione è stata proposta, condivisa da tutte le liste firmatarie, era quella di spingere l’Università a prendere una posizione netta all’interno del dibattito pubblico e a farsi carico di quei principi di autonomia, indipendenza e responsabilità che trovano affermazione nel suo Statuto e che dovrebbero ispirare la sua azione.

L’università è un’istituzione posta a presidio della cultura e dell’elaborazione critica di pensieri e opinioni e in quanto tale, secondo i firmatari della mozione, non può chiamarsi fuori dalle dinamiche politiche e da quello che accade nel mondo esterno: laddove necessario, l’università ha quindi il dovere di far sentire la sua voce attraverso gli strumenti di cui dispone e in questo caso l’unica via percorribile era quella del boicottaggio culturale.

«Per quanto riguarda la Reichman University, si tratta di un’università che porta avanti una determinata ideologia e politica che a nostro avviso non coincide con i valori della Statale di pluralismo democratico e di inclusione» ha affermato Ivan Zeduri, rappresentante di SU-UDU.

Tempi eccezionali richiedono misure eccezionali – si sa – e in questo senso sanzioni di natura culturale avrebbero potuto avere un impatto non indifferente sulla percezione pubblica della guerra in atto. Eppure, soprattutto in tempi di guerra, cultura e istruzione sono i più forti ed efficaci canali di comunicazione di cui disponiamo.

Quando tutto il resto non parla o si odia, la cultura tiene invece aperto il dialogo e il confronto tra idee.

Per questi motivi la lista universitaria Obiettivo Studenti si è detta contraria alla mozione presentata in Senato. «Da che cosa ripartiremo dopo la guerra se decidiamo di condannare quello che è il ruolo e il valore dell’università e del sapere?» si chiede Elia Montani, rappresentante in Senato della lista, per poi aggiungere quale strada alternativa sarebbe stato giusto percorrere: «L’unica forma di pressione che l’Università può propugnare è quella basata sull’affermazione di tutti i valori che la animano […]. Per me si combatte la guerra anche solo se l’università organizza un incontro dove si parla e discute del tema. Questo boicotta il sistema della guerra più di tanto altro».

«Sicuramente il dialogo va tutelato, ma in questo momento mi sembrava più utile portare avanti una voce forte nel dibattito pubblico» sostiene invece Benedetto Longobardi, rappresentante di UniSì (lista firmataria della mozione); «se noi mandiamo per cinquant’anni studenti in Israele costruiamo la pace che ci deve essere tra settant’anni; se invece vogliamo fare qualcosa per influire su quello che sta accadendo oggi, allora dobbiamo agire diversamente».

Una decisione non semplice, insomma, che richiede un cauto bilanciamento degli interessi e dei valori in gioco e che inevitabilmente ci spinge a chiederci cosa sia più utile fare, in quanto studenti, di fronte a una situazione così delicata come quella di una guerra.

Quale che sia la posizione condivisa, però, resta il fatto che l’università è per definizione una comunità plurale, dove le idee si scontrano e si alimentano a vicenda e le voci critiche non esitano a farsi sentire. Viene allora da chiedersi se, andando a condannare un’intera istituzione, non ci sia il rischio di mortificare anche quelle singole voci critiche, voci che chiedono di essere ascoltate e non certo di essere costrette al silenzio.

Questa è la preoccupazione espressa da Marco Dehò, rappresentante della lista Studenti per le Libertà (contraria alla mozione): «All’interno degli atenei israeliani c’è anche chi non appoggia le scelte di Netanyahu: per questo è giusto mantenere i rapporti, per sapere cosa succede all’interno del Paese, se gli studenti si stanno ad esempio mobilitando. A volte è proprio dalle università che partono moti rivoluzionari».

Opinione tuttavia non condivisa da Chiara Azzolin, rappresentante di Studenti Indipendenti, che sostiene che «interrompere un accordo non significa interrompere il dialogo. Viene interrotto l’attivo riconoscimento pubblico di legittimità di quell’istituzione». Dello stesso avviso è anche Ivan Zeduri (SU-UDU), a cui tra l’altro appare assurdo il fatto che «si stia ripetendo una dinamica molto simile ai genocidi che sono avvenuti lungo tutto l’arco del Novecento».

Non a caso, «quando si studia il nazismo si dice ‘Ma perché non hanno fatto niente? Perché non hanno alzato la voce?’; adesso abbiamo sia la voce che il dovere di manifestare la nostra contrarietà». Per tutti i rappresentanti delle liste favorevoli alla mozione appare quindi evidente che, come ripreso dalle parole di Chiara Azzolin, «la mancanza di un’aperta condanna è di per sé una presa di posizione».

L’accusa di essere inerti, di voler quasi ignorare la guerra mantenendo aperte le relazioni con gli atenei israeliani, è invece rifiutata da Marco Dehò (SPL): «Non si tratta di indifferenza, ma del riconoscimento del valore della singola università tralasciando il contesto che la circonda. Dovrebbe esserci un collegamento internazionale tra le università e chi le frequenta (studenti e professori); e questo collegamento è il sapere, che va oltre la politica e la guerra ed è anzi lo strumento che permetterà poi la pace».

Quindi, tagliare i rapporti potrebbe costarci molto caro in futuro.

Non sarebbe la prima volta, però, che si tenta la strada del boicottaggio culturale: questo era stato subito implementato nei confronti della Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina, interrompendo le collaborazioni con le università del territorio governato da Vladimir Putin. All’epoca non ci eravamo fatti troppe domande sull’utilità di questo tipo di intervento: la differenza, sottolinea Chiara Azzolin (SIS), è che «in quel caso la presa di posizione non è arrivata dagli studenti».

Era stata, come ricordato da Ivan Zeduri (SU-UDU), una nota della CRUI a dare impulso all’interruzione degli accordi con gli atenei russi: «Perché con uno stato invasore ci comportiamo in un modo e con un altro diversamente?». La risposta la fornisce Obiettivo Studenti attraverso le parole di Elia Montani: «Putin ha fatto qualcosa che Netanyahu non ha fatto, cioè ha assoggettato a sé il sapere e le università; ha tentato di mettere mano sulla cultura, creando, attraverso gli strumenti del sapere, un clima di repressione. In Israele invece questo non sta accadendo».

Se secondo Azzolin (SIS), l’homepage del sito della Reichman University non lascia dubbi sul suo coinvolgimento politico («trasuda di sionismo»), per Montani (OS) dalla pagina web emerge solo che si tratta di un Ateneo situato in un Paese in guerra: «C’è una differenza tra il fatto che un’università israeliana nel proprio sito dica ‘Viva Israele’ e che un’università diventi strumento mediante il quale i potenti condizionano il sapere e il suo sviluppo».

È importante ricordare che la Statale intrattiene accordi in tutto il mondo e, inevitabilmente, anche con quei Paesi che poco rispecchiano la definizione di democrazia (basti pensare alla Cina): perché allora chiedere di condannare solo la Reichman University? Qual è il criterio in base a cui possiamo ritenere che un’università sia meritevole di essere isolata?

Secondo Longobardi (UniSì) «bisogna capire quanto un impatto mediatico possa effettivamente cambiare la realtà: in questa circostanza l’impatto sarebbe stato tale per cui io posso dire sacrifichiamo il dialogo che abbiamo con le università israeliane. Ma quello che può essere strategico fare in questa situazione non è detto che lo sia rispetto ad altri paesi».

Secondo Montani e Dehò, invece, il parametro in base a cui possiamo ritenere che una comunità scolastica non sia da relegare al silenzio è il fatto che in quella comunità ci sia ancora spazio per il dialogo, e quindi libertà. Quando l’università è ancora in grado di «svolgere il proprio ruolo ed essere un ponte fra le varie culture del mondo, allora una sanzione culturale diventa priva di significato» sostiene Montani (OS).

Per il rappresentante di SPL, invece, bisogna distinguere tra studenti e istituzione: «Se ci fosse anche solo uno studente o studentessa che ha la possibilità di opporsi alle decisioni e alla linea dell’università, allora il dialogo con quell’istituzione va tutelato».

Clara Molinari
Studentessa di giurisprudenza, scrivo per dare ascolto ai miei pensieri e farli dialogare con l’esterno. Cinema e lettura sono le mie fonti di emozioni e conoscenza; la curiosità è ciò che lega il tutto.
Nina Fresia
Studentessa di scienze politiche, curiosa per natura, aspirante giramondo e avida lettrice con un debole per la storia e la filosofia. Scrivo per realizzare il sogno della me bambina e raccontare attraverso i miei occhi quello che scopro.

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