Del: 2 Febbraio 2024 Di: Redazione Commenti: 0
Gigi Riva, l'eroe della realtà sarda che non morirà mai

Il critico letterario russo Michail Michajlovič Bachtin, intorno agli anni ’50 del secolo scorso, ha coniato un termine che a suo modo rivoluzionerà il mondo della semiotica contemporanea: il cronotopo. In sé, un po’ spigoloso e apparentemente di difficile interpretazione, adempie al ruolo arduo e altrettanto spigoloso di racchiudere in una sola parola lo spazio e il tempo, attraverso un’elegante sintesi

Il cronotopo altro non è che quel luogo della letteratura, possibile e realizzabile solo nelle sue coordinate spaziali e temporali, inscindibile e misteriosamente connesso a quel preciso orario, a quel dato e univoco punto della storia dell’uomo, ai suoi abitanti, ai suoi odori.

Uno fra i primi a focalizzare la propria narrazione su un simile soggetto fu Giovanni Verga, che nei Malavoglia descrive una Aci Trezza autenticamente disadorna, che proprio in virtù del suo essere non può che rimanere, fra lo scorrere delle pagine del romanzo, avvinghiata a quell’incanto, distante da ogni progresso tecnologico che stava tiepidamente affacciandosi al tramonto del 1800, persino sulle isole italiane. 

Chi ha vissuto la Sardegna a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, la racconta proprio con queste espressioni, di un dolce rifiuto dell’oltre, di quello che si affacciava al di là del mare cristallino:

una composta timidezza, che si scorge persino in ampi centri economici e culturali come Cagliari, nei confronti di una penisola che in fondo non ha mai avuto granché a che fare con quelle terre ancora incontaminate. 

Quella tiepidezza d’animo che avvolgeva il popolo sardo all’arrivo di un nuovo forestiero subì una lenta ma inesorabile scossa nell’estate del 1963, quando un nuovo straniero si presentò alle soglie del capoluogo cagliaritano. Lombardo di origine, con un viso assorto, uno sguardo che forse esprimeva rimorso e poca intenzione di rimanere in quel luogo tanto distante da casa. Il suo nome era Gigi Riva: un ragazzo appena diciannovenne, ma non un estraneo qualsiasi. 

Si trattava infatti del nuovo acquisto della società sportiva Calcio Cagliari, che legava il cuore popolare della città alla borghesia industriale, in un intenso e passionale tifo sportivo che abbracciava la moltitudine di sfumature sociali, altrimenti relegate a esistenze inconciliabili: una contraddizione che il calcio avrebbe riproposto lungo tutto il ventesimo secolo in ogni angolo dello stivale. 

Il vicepresidente Andrea Arrica, accompagnato dall’allenatore Arturo Silvestri, aveva osservato il giovane in occasione delle partite che la squadra giocava in trasferta in Lombardia, la cui base era nel centro sportivo del Legnano, proprio il club nativo del futuro undici gialloblù. 

Nonostante un’iniziale perplessità, il calciatore decise di lasciare famiglia, amici e il suo mestiere da manovale presso l’azienda di ascensori di Legnano, per approdare ad una terra arida e ostile. 

Dalla Sardegna non si sarebbe staccato mai più, innamorandosi, più che delle sue bellezze, di un popolo che riponeva la propria speranza in un senso di rivalsa nei confronti di un’identità nazione – quella italiana – che non aveva mai del tutto sentito come propria.  

La figura che andava allora delineandosi non poteva di certo ridursi ai suoi piedi, alle sue azioni, al modo in cui avrebbe solcato i campi da calcio lungo tutta la sua carriera, fino al campionato italiano vinto nella stagione ’69-’70, insieme quello che ormai era diventato il “suo” Cagliari. 

Più che nella tecnica e nel gioco, Riva stupiva nella sua iconografia, come eroe contemporaneo che più di ogni altro ha toccato con mano quella che nel Cinquecento l’arcivescovo Antonio Parragues de Castillejo definì «terra di pochi, privi di ragione e disuniti»un microcosmo celato dietro il boom economico che stava attecchendo nelle grandi metropoli del Nord Italia, in cui le leggi del mercato e la conseguente modernizzazione sembravano appartenere ad un altro mondo. 

Ciò che sorprende in Riva è dunque una conquista pacifica del potere, un trionfo ottenuto in una realtà – quella sarda – che fino a quel momento era stata percepita soltanto come località di confino punitivo per l’arma dei carabinieri. Tutt’al contrario, con l’isola egli instaurò un rapporto di intimo amore, una coesione che nutrì le piazze allora destinate a vivere decenni di povertà, nell’epoca di un progresso verticale che abbandonava al proprio destino quei “pochi disuniti”:

per la prima volta, in un inedito cortocircuito, uno “straniero” era diventato sardo e il suo successo era quello di tutti. 

La scomparsa di Gigi Riva, verificatasi lo scorso 22 gennaio, non è dunque soltanto la scomparsa di un calciatore e del più grande marcatore nella storia della Nazionale Italiana: è la scomparsa dell’elemento di raccordo che riunì lo spazio e il tempo sardi con quelli della Penisola, un cronotopo che cambiò radicalmente la vita delle persone. Per questo possiamo affermare che Gigi Riva non morirà mai davvero. 

Articolo di Marco La Rosa

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