È l’8 gennaio del 1991 a Su Enazzu Mannu nel comune di Sinnai, in provincia di Cagliari. Uno scooter avanza silenzioso in quel freddo martedì, passato alla storia come il giorno della “Strage di Sinnai”: l’uomo in sella al veicolo imbraccia un fucile con il quale assale quattro allevatori, portando tre di essi alla morte e l’unico sopravvissuto a essere ricoverato d’urgenza a causa delle ferite riportate. Le vittime sono Gesuino Fadda, proprietario dell’ovile in cui avviene l’uccisione, il figlio di quest’ultimo, Giuseppe, di soli 24 anni, e il dipendente di Fadda, Ignazio Pusceddu. A essere ferito è invece il genero di Gesuino, Luigi Pinna.
Una famiglia sterminata, nessun colpevole immediatamente riconoscibile
È nei giorni successivi che inizia il lungo calvario di Beniamino Zuncheddu, pastore anch’egli e primo sospettato della strage dati gli aspri trascorsi che la stessa famiglia di Zuncheddu aveva con i Fadda. Certamente le liti tra pastori non costituiscono una novità nel territorio sardo, e il più delle volte i loro epiloghi lasciano dietro di sé una scia sanguinolenta e sconvolgente, talvolta celando una verità più complessa e di gran lunga più macabra di litigi coinvolgenti il bestiame, e tuttavia spesso riconducibile a mere faide “agropastorali” (nel caso specifico la famiglia Zuncheddu e la famiglia Fadda erano infatti arrivati all’uccisione reciproca di bovini).
Ed è proprio così che il plurimo omicidio nel cagliaritano viene classificato, come semplice lite tra allevatori; nonostante la frettolosa archiviazione del caso, finito nei meandri della burocrazia giudiziaria senza alcuna possibilità di risurrezione, emerge l’intraprendenza (e a oggi potremmo dire anche la sfrontatezza), di un giovane dirigente di polizia, Mario Uda, il quale intende strutturare la pista del delitto sull’identità di un ragazzo poco più che ventenne, Beniamino Zuncheddu, pastore anch’egli e asseritamente colpevole, secondo Uda, dato il movente di carattere vendicativo contro la famiglia Fadda.
L’elemento decisivo nella ricostruzione dell’agente sarà poi la testimonianza oculare dell’unico sopravvissuto, Luigi Pinna, elemento che come recentemente accertato dalla Corte d’Appello di Roma costituisce uno dei più grossolani errori giudiziari sino a oggi commessi nel sistema giudiziario italiano. Ma andiamo con ordine.
Beniamino Zuncheddu viene condannato a seguito dell’accusa di Pinna, al quale viene sottoposto l’esame di diverse fotografie ritraenti il giovane pastore allo scopo di identificare l’aggressore, il quale al momento della strage risultava irriconoscibile a causa di una calza di nylon messa a coprire il volto, così come dichiarato dallo stesso Pinna. È chiaro che il riscontro di tale identità costituisce un momento molto difficile, non solo per la situazione di estremo pericolo in cui Pinna si era trovato al momento dell’omicidio (costui infatti si era finto incosciente e aveva atteso l’arrivo della polizia sino al giorno successivo), la quale aveva dunque portato a privilegiare la sopravvivenza rispetto allo scontro diretto, ma anche per via della percezione, sempre più attenuata con il passare del tempo, in relazione a qualsivoglia dettaglio che potesse essere utile alle indagini.
E qui entra gioco Uda: secondo la sentenza emessa all’esito del procedimento di revisione il contributo del dirigente di polizia, o meglio la sua mistificazione dei fatti, ha avuto conseguenze irreparabili per il futuro di Zuncheddu; il primo avrebbe infatti mostrato, instillando un ragionevole dubbio sulla credibilità del testimone per il futuro, una foto di Zuncheddu indicandolo come colpevole, cercando di “orientare” la memoria di Pinna e convincerlo ad accusare il pastore prima del vero e proprio riconoscimento dei sospettati. Indebite pressioni che però hanno sortito l’effetto sperato: il pastore della famiglia “rivale” finisce in carcere all’età di 27 anni, tutta la vita davanti e tuttavia nessuna apparente speranza per il futuro. Solo nel 2017, grazie alla perspicacia e determinazione del nuovo legale di Zuncheddu, Mauro Trogu, la verità tornerà finalmente a galla a seguito di nuove intercettazioni tradotte dal sardo ed effettuate sulle conversazioni del sopravvissuto Pinna che svelano l’inganno, portando dunque l’ex ergastolano a essere assolto dinanzi al giudice di seconde cure con una delle formule più garantiste del nostro sistema processual-penalistico, indubbia consacrazione dell’innocenza di Beniamino: l’imputato viene assolto “perché non ha commesso il fatto”.
La caduta di tutte le accuse è consequenziale, così come la revoca dello stesso ergastolo. Di questa vicenda è importante sottolineare due aspetti: oltre alla gravissima compressione dei diritti dell’allora condannato, alla quale nessuna riparazione, monetaria o meno, potrà mai sopperire appieno a fronte della perdita di più di trent’anni della propria vita, è sconvolgente come per un caso di tale gravità (pur non avendo avuto una risonanza mediatica amplificata), sia stato impossibile riscontrare un errore talmente plausibile, errore che pur sussistendo avrebbe potuto essere identificato in tempi se non rapidi, almeno ragionevoli.
Invece quasi 33 anni sono passati, e un innocente ha pagato per qualcun altro, la cui identità rimane ignota tutt’oggi.
Una riflessione sullo stato della giustizia del nostro Paese appare quindi doverosa. Se molte volte sentenze di condanna, pur giustamente emesse, fanno pensare e sollevare le voci dell’opinione pubblica a causa di pene asseritamente troppo miti irrogate nei confronti degli accusati, altrettanta indignazione suscitano i casi, attualmente ancora troppo numerosi, relativi agli errori giudiziari commessi nello svolgimento dei procedimenti penali; errori, si badi bene, che non coinvolgono solo la mera decisione del giudice competente, e che dunque vanno ascritti alla singola sfera del diritto strettamente inteso, ma errori che si verificano nello stesso svolgimento delle indagini tramite la raccolta e la valutazione delle prove, l’acquisizione delle testimonianze, nonché attraverso i temuti e purtroppo frequenti, depistaggi.
In una prima cornice statistica vengono distinte le vittime da cosiddetta ingiusta detenzione dalle vittime di errori giudiziari veri e propri: le prime soffrono di un pregiudizio derivante dalla custodia cautelare e dagli arresti domiciliari (una privazione della loro libertà direttamente confliggente con l’articolo 13 della Costituzione,) precedenti una sentenza di assoluzione per lo stesso soggetto; le seconde, invece, patiscono le conseguenze di un intero processo penale sino all’emissione di una pronuncia di condanna, salvo poi, attraverso la revisione del processo, vedere ripristinato il loro status di innocente. Secondo le stime del sito Errorigiudiziari, gestito dai giornalisti Lattanzi e Maimone, dal 1991 (stesso anno della strage di Sinnai) sino alla fine del 2022, sono stati 30.556 i casi di ingiusta detenzione, con una media di circa 985 innocenti privati della propria libertà personale; in particolare, nel 2022 i casi hanno toccato quota 539, in leggero calo rispetto all’anno precedente.
Ma i numeri restano allarmanti. Per quel che riguarda gli errori giudiziari, la media è di 7 all’anno, con un totale di 222 dal 1991.
Nel 2022 gli errori giudiziari in senso stretto sono stati 8 (l’allarme vero e proprio scatta nel momento in cui si supera la soglia del 10). Si potrebbe pensare che tali numeri in questo si esauriscano: cifre che non tengono conto dell’impatto devastante sulla vita dei cittadini; e tuttavia il problema persiste. Lo stato italiano, nel 2022, ha speso circa 9 milioni e 951mila euro per i risarcimenti disposti nei confronti delle vittime di errori giudiziari, una spesa colossale che contribuisce sempre più a sfaldare l’impalcatura processuale del sistema di giustizia.
A ciò si aggiunge un’altra questione spinosa: data la frequente necessità di riparare agli errori giudiziari, lo stesso stato tende a ostacolare fortemente l’emissione di indennizzi, mantenendoli il più delle volte vicini alle soglie minime prestabilite dalla legge. Insomma, un coacervo di problematiche che investendo la regolarità degli snodi procedimentali penali, vanno a inficiare lo stesso buon andamento e la stessa regolarità dei processi. Ma tale coacervo non può andare a discapito delle prerogative fondamentali dell’individuo, soprattutto nel momento in cui la già ampiamente riscontrata lentezza delle aule di tribunale contribuisce a diluire fortemente l’interesse delle “vittime” a ottenere un giusto ristoro rispetto ai pregiudizi patiti.
Dalla pandemia di Covid-19 la situazione è inoltre ulteriormente peggiorata, non essendo il numero di istanze presentate per ottenere la riparazione da ingiusta detenzione ancora stato smaltito completamente dalle Corti d’Appello. Resta dunque da auspicare, ancora una volta, in un’incisiva riforma dell’architettura sanzionatoria statale, non circoscritta esclusivamente ad accelerare i tempi processuali, ma anche ad assicurare una più efficace e oculata irrogazione della giustizia in tutti i campi in cui la stessa si estrinseca.
Articolo di Vittoria Menga