Del: 27 Febbraio 2024 Di: Jessica Rodenghi Commenti: 0
La giustizia non esiste per i morti sul lavoro

Sono le 6 di mattina del 16 febbraio. Un gruppo di operai si è fermato nel solito bar per fare colazione, ordinano caffè, cappuccini, qualche cornetto. Salutano veloce, attraversano la strada e arrivano al cantiere a cui stanno lavorando da tempo. Stanno costruendo una nuova Esselunga, al momento sono arrivati i prefabbricati e loro li stanno assemblando. Ci sono dei piloni imponenti appesi nel cantiere, ma non c’è da preoccuparsi.

Ore 9. Un tonfo sordo, seguito da un’onda d’urto che mette in allerta tutto il vicinato. Urla, schiamazzi, qualcuno accorre, altri chiamano le ambulanze. Sul posto arrivano i soccorsi, la polizia, la municipale, i rappresentanti della Cgil.

Alcuni operai trascinano fuori a forza i pochi che sono riusciti a liberare dalle macerie: un pilone di venti metri è caduto, facendo crollare il solaio che sosteneva. Lì sotto ci sono persone che stavano lavorando, le notizie parleranno di 5 morti e 3 feriti.

Al momento la Procura di Firenze ha aperto un’indagine per omicidio colposo plurimo e crollo colposo.

Secondo Maurizio Landini, segretario della Cgil, «Ci sono delle responsabilità molto precise, non è che sono fatalità quelle che sono successe. La morte è legata alla logica dei subappalti, del massimo ribasso, del profitto fine a se stesso, a una precarietà del lavoro che non ha fine».

«Le morti sul lavoro — aggiunge — si possono evitare e combattere se, anziché far prevalere quella logica, prevale la logica della centralità della persona, del lavoro, della qualità del fare impresa». È in questo senso che chiede di «cambiare le leggi assurde che sono state fatte e la liberalizzazione a cascata che è stata data ai subappalti», perché «qui ci sono delle responsabilità anche politiche molto precise. Le ultime leggi fatte da questo governo danno come effetto il peggioramento e anche delle morti sul lavoro».

Mentre la magistratura farà il suo corso, ci si chiede quanto questa notizia potrà veramente smuovere le acque di un sistema che rimane sempre lo stesso, con più di 1000 morti sul lavoro nel 2023. Ad oggi la ministra del Lavoro e delle politiche sociali Marina Calderoli ha annunciato un nuovo pacchetto di misure per combattere il lavoro sommerso ed il caporalato: sarà abbastanza?

È ormai normalizzato che la politica si occupi di questioni immediate con decreti e misure estemporanee, anziché con un piano strutturale che possa portare effetti positivi sul lungo termine. Si procede dunque con azioni mirate in seguito a fatti che scuotono l’opinione pubblica, per ragioni di convenienza e di credibilità politica ma senza una prospettiva che possa davvero cambiare il sistema.

Questi morti sul lavoro non sono i primi e purtroppo non saranno gli ultimi: le condizioni lavorative in questi settori sono spesso regolamentate in modo inefficace, perché i cantieri vengono subappaltati più volte.

L’1 aprile 2023, infatti, è entrato in vigore il nuovo Codice dei Contratti Pubblici: se prima non si poteva subappaltare più di una volta, ora le imprese possono affidare a terzi l’attività in un ciclo potenzialmente infinito. Da un punto di vista teorico l’azienda principale può quindi affidare il lavoro a varie ditte specializzate, che dovrebbero svolgerlo in modo più rapido ed economico, ma la realtà è ben diversa.

Innanzitutto non ci sono controlli sulla competenza effettiva di chi subentra nell’attività e di conseguenza la qualità del lavoro può decadere nel caso in cui le aziende coinvolte non siano adeguatamente qualificate. Altro fattore — anche questo citato in relazione al caso di Firenze e per ora non confermato — è rappresentato dal fatto che spesso le aziende subappaltatrici cercano di risparmiare sulla formazione in materia di sicurezza sul lavoro per offrire le proprie prestazioni ad un prezzo inferiore alla media. Da ciò conseguono inevitabilmente maggiori rischi nei luoghi di lavoro, aggravati dal mancato o parziale rispetto delle misure preventive.

Le condizioni di lavoro risultano poi ancora peggiori per i lavoratori con background migratorio: quando si ha a disposizione soltanto un permesso di soggiorno non regolare, l’unica strada percorribile è lavorare in nero, per riuscire ad ottenere qualcosa in cambio della non segnalazione alle autorità. Lo scambio, però, regala moltissimo potere nelle mani dei titolari, che possono utilizzare il richiamo delle forze dell’ordine come deterrente per far svolgere mansioni più pericolose, in poco tempo e in condizioni di gran lunga peggiori rispetto ad un lavoratore regolare. Queste persone sono specializzate solo per il 9%: i restanti vengono indicati per mansioni semplici, che vengono pagate molto meno rispetto al lavoro normato. 

Ad ogni modo i titoli di giornale riporteranno a chiare lettere prima di tutto la nazionalità degli operai, poi il fatto che sono morti. Nei giorni successivi una delle preoccupazioni dell’opinione pubblica è stata verificare che tutti avessero i documenti in regola, con la narrazione che diventa “irregolari morti in un cantiere” e non più operai, lavoratori.

Ma è davvero necessario fare riferimento al background migratorio dei lavoratori, o ancora alla loro condizione di residenti irregolari, al fine di garantire un’informazione corretta e completa?

La risposta è no: si tratta di informazioni superflue, che non aiutano a comprendere i fatti, ma deviano l’attenzione del pubblico sulle presunte “colpe” delle persone immigrate, inducendo a trascurare la responsabilità di chi, per una questione di mero profitto personale, sfrutta i lavoratori approfittandosi della loro vulnerabilità.

Inoltre, nonostante possa sembrare innocuo, il richiamo insistito alla provenienza degli operai — strumentalizzato da larga parte dei media e degli esponenti politici italiani — non è che una conseguenza del razzismo sistemico che si infiltra in ogni ambito della nostra vita e in merito al quale, in Italia, non è ancora stato avviato alcun dibattito collettivo.

La narrazione mainstream tende dunque ad alimentare lo stereotipo secondo il quale le persone “straniere” sarebbero più inclini a commettere reati e, di conseguenza, meno meritevoli di ricevere tutele in un contesto lavorativo italiano in cui la deregolamentazione è all’ordine del giorno. Inoltre, soffermarsi sul background migratorio e sull’associazione a reati compiuti, può causare un effetto di deumanizzazione: quante volte le notizie vengono riportate indicando l’autore del reato soltanto tramite la nazionalità?

Questo ci spinge a non identificarlo più come una persona, ma come lo stereotipo della persona “straniera” che commette reati, molto radicato nell’immaginario comune italiano. Deumanizzare altre persone è molto pericoloso, perché fa sì che la loro sofferenza o persino la loro morte non abbia alcuna importanza, alcun valore. Di conseguenza anche i morti sul lavoro perdono d’importanza quando si tratta di persone con background migratorio e la notizia passa in secondo piano, come non fossero, come tutti, vittime di un sistema che non mette la sicurezza del lavoratore e la trasparenza al primo posto.

Jessica Rodenghi
Jessica, attiva nel mondo e nelle società, per fare buona informazione dedicata a tutti e tutte.

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