Che Charlie Kaufman sia uno degli autori più originali del cinema americano contemporaneo lo comprova la sua esile filmografia. In un quarto di secolo, dal 1999 a oggi, il cineasta newyorkese ha lavorato ad appena nove film. Ha firmato il soggetto e la sceneggiatura di progetti coraggiosi, che sono stati tradotti in immagini da registi all’avanguardia come Spike Jonze (Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee) e Michel Gondry (Human Nature, Se mi lasci ti cancello).
Nel 2008 ha iniziato a dedicarsi in prima persona alla mise en scène dei propri copioni, dirigendo quel Synecdoche, New York che ne riassumeva già perfettamente la poetica, fatta di costruzioni narrative a scatole cinesi, inetti sveviani come protagonisti e universi mentali che rischiano di collassare sotto il peso del legame con l’Altro.
Un “autore” vero, dunque. Libero di attivarsi solo dopo aver messo a fuoco un’idea nuova, lasciando passare anche sei o sette anni dall’uscita del film precedente.
Ma, soprattutto, un regista incapace di scendere a compromessi, dotato ormai di un potere contrattuale talmente forte da permettersi il lusso di lavorare con Netflix (che ha distribuito il suo Sto pensando di finirla qui, nel 2020) senza rinunciare a un’oncia della propria cifra stilistica.
Proprio su Netflix, dal 2 febbraio, è disponibile il film animato Orion e il Buio, nuovo tassello della produzione di Kaufman, qui unicamente in veste di sceneggiatore – la regia è dell’esordiente Sean Charmatz, che in passato fu tra i responsabili delle scenografie di molti prodotti animati di richiamo, come Spongebob, The Lego Movie e Dragon Trainer.
Com’è tipico di Kaufman, anche in questo caso il protagonista del film ha qualche problema a relazionarsi con il mondo esterno. Orion è un bambino di undici anni che vive con fatica praticamente ogni aspetto della sua ordinaria quotidianità: bullizzato a scuola, incompreso in famiglia, consumato dall’ansia da prestazione nei rapporti sociali.
Per non rischiare di commettere errori prendendo l’iniziativa, si preclude tutto ciò che la vita ha di bello da offrirgli, rinunciando anche all’amore per una compagna di classe. Manterrà questa linea di condotta fino a quando non incontrerà Buio (un’entità soprannaturale, personificazione della paura infantile per eccellenza), che lo condurrà in un viaggio alla scoperta delle meraviglie della notte.
Non è la prima volta che Kaufman si misura con il cinema d’animazione, ma a differenza di Anomalisa (il lungometraggio in stop-motion del 2015 che si serviva di pupazzi e marionette per mettere in scena un teatro dell’assurdo grottesco, chiaramente indirizzato a un pubblico adulto), nel raccontare la storia di Orion l’autore si rivolge direttamente a un’audience più giovane, senza filtri.
«Sono un bambino, come te. Ecco cosa abbiamo in comune», sono le prime parole del protagonista all’inizio del film.
Una dichiarazione d’intenti che lascia intendere, oltre al target del prodotto, un dato essenziale sulla psicologia del piccolo antieroe kaufmaniano, sempre solo e impaurito, alla ricerca di certezze elementari che legittimino i suoi tentativi di apertura al mondo (nella fattispecie la frase dell’incipit è rivolta, come scopriamo dopo pochi secondi, proprio all’oggetto dei suoi desideri più inconfessabili: la ragazzina di cui è innamorato).
È però la sofisticatezza dell’intelaiatura narrativa a rendere pregevole l’opera. Il primo atto sembra rifarsi al canonico schema del “viaggio dell’eroe” istituzionalizzato da Christopher Vogler negli anni Novanta: un percorso di maturazione che dovrebbe portare Orion a vincere tutte le proprie paure familiarizzando con Buio.
Ma verso la metà del film la mano di Kaufman torna a farsi sentire, insieme con la sua avversione più volte dichiarata per i manuali di sceneggiatura tradizionali che riducono a tipi e categorie fisse la mutevolezza del reale. Ecco quindi che Orion non supera in realtà alcun ostacolo, e anzi finisce col seminare zizzania tra Buio e le altre creature del fiabesco mondo notturno (Sogno, Insonnia, Quiete, Sonno, Rumori misteriosi), che iniziano a sostenere la nemesi del loro vecchio amico: Luce.
Lo scopo del viaggio intrapreso da Orion (e da Buio stesso, che cerca di stringere amicizia con il ragazzino perché è lui stesso un “emarginato” che nessuno tiene in considerazione) trova quindi giustificazione non in una possibile mèta ma nel suo stesso raccontarsi agli altri. Dopo pochi minuti, infatti, scopriamo che il film a cui stiamo assistendo è frutto della fantasia di Orion adulto che, una volta diventato padre, narra di se stesso alla figlia per farle vincere la paura dell’oscurità.
Questo è il vero nucleo tematico che da sempre interessa a Kaufman: la capacità di padroneggiare gli strumenti della narrazione per elaborare mondi e miti con i quali provare a combattere le nostre insicurezze, per legittimare noi stessi.
Lo sceneggiatore si riconferma sfrontato nel personalizzare la propria creazione, anche a dispetto di una regia piatta, con pochi guizzi, pienamente conforme ai canoni di Netflix. Kaufman dissemina la pellicola di strizzatine d’occhio al pubblico adulto che ricordano vagamente il discorso psicoanalitico portato avanti dagli ultimi film Pixar di Pete Docter (Inside Out e Soul). Ed è l’ennesima prova dell’unicità di un Autore che merita la visione a scatola chiusa, specie perché (almeno finora) non ha mai sbagliato un colpo.
Articolo di Emanuele Rossi Ragno