Del: 30 Marzo 2024 Di: Elisa Basilico Commenti: 0

C’è voluta solo una crisi umanitaria per scuotere l’amministrazione Biden a cambiare retorica nei confronti del governo israeliano di Benjamin Netanyahu.

I bombardamenti d’Israele, accompagnati dai tagli alle forniture idriche ed elettriche a Gaza, hanno ucciso più di 32.000 palestinesi; l’insufficienza dei pochi aiuti che riescono a entrare nella città, bloccata da tutte le parti, ha portato più di 500.000 persone alla carestia, secondo le Nazioni Unite. 

Finora, in tre diverse occasioni, gli Stati Uniti hanno usato il loro potere di veto per affossare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, orientato verso un cessate-il-fuoco. Un’abitudine terminata questo lunedì, quando la rappresentanza statunitense ha deciso di astenersi dal voto, permettendo l’approvazione d’una proposta di tregua fino al termine del mese di Ramadan.

Washington ha minimizzato questa scelta come non vincolante («Il nostro voto non rappresenta una svolta nella nostra politica», ha detto John Kirby, portavoce della Casa Bianca per la Sicurezza Nazionale); il cambiamento di posizione è stato però sufficiente a sollecitare una forte risposta da parte del primo ministro israeliano Netanyahu, che si è scagliato contro gli Stati Uniti per non aver bloccato la mozione e di conseguenza ha annullato la visita d’una delegazione israeliana al Campidoglio.

Non è certo la prima volta che Netanyahu polemizza apertamente con gli USA: solo la scorsa settimana, per esempio, aveva annunciato il sequestro illegale di 800 ettari di terra nella Cisgiordania occupata, sfidando il divieto statunitense di creare nuovi insediamenti coloniali.

È comunque una sorprendente deviazione dalla storica alleanza tra Israele e Stati Uniti.

Israele è il principale destinatario d’aiuti militari degli Stati Uniti: dalla seconda guerra mondiale ha ricevuto più di 300 miliardi di dollari, mentre ora si parla di 3,8 miliardi ogni anno. Alcuni degli altri beneficiari, come l’Egitto, ricevono fondi in cambio del mantenimento di rapporti neutrali con Tel Aviv. 

Il sostegno incondizionato a Israele è stato inoltre un elemento fisso della politica statunitense in Medio Oriente sin dalla creazione dello Stato nel 1948: JFK aveva coniato il termine special relationship (“rapporto speciale”) nel 1962, spiegando che i legami di Washington con Israele erano paragonabili solo a quelli con il Regno Unito. Nel 2020, Donald Trump aveva ulteriormente esplicitato questo legame, ammettendo che «non c’è altra ragione per noi di stare in Medio Oriente, se non perché vogliamo proteggere Israele.»

Biden, tuttavia, differisce dai suoi predecessori per la lunga, personale e pubblica amicizia con un leader che affezionatamente chiama “Bibi”: non solo un alleato, da più di 40 anni Biden «fa parte della nostra mishpucha», aveva una volta affermato Netanyahu, usando la parola yiddish per “famiglia”. 

In uno spirito di collaborazione ultradecennale, Biden ha finora lasciato correre molte delle decisioni (militari e non) di Netanyahu – ma una perdita di consenso interna e un completo rifiuto del primo ministro di scendere a compromessi non fanno che aumentare le ostilità internazionali, costringendo la Casa Bianca a cambiare politica.

Di fatto, Netanyahu sembra indifferente a ogni forma di pressione, e pare non voler presentare alcuna strategia a lungo termine per Gaza che non includa il totale annichilimento;

tra numerose proteste, il suo sostegno sta raggiungendo i minimi storici ed egli sembra consapevole che una volta finita la guerra, il suo turno al potere è sotto grande rischio.

«Pare che sia in campagna elettorale» ha detto Nimrod Novik, membro dell’Israel Policy Forum. «È occupato a rassicurare la sua base elettorale sempre più ristretta, [che] risponde meglio a un nazionalismo machista» come dimostrato dal suo rifiuto di approvare qualsiasi risoluzione che ostacoli i progressi territoriali dell’IDF, insistendo sul fatto che «la vittoria totale è a portata di mano».

Ignorato sulla questione colonie e sulla possibile distruzione della città di Rafah (dove sono rifugiati migliaia di sfollati), Biden si trova a dover riassestare il ruolo della propria nazione in una regione che gli sta sfuggendo di mano. Le fratture nella special relationship con Israele stanno ostacolando la manovrabilità strategica di Washington in Medio Oriente e hanno inibito la capacità del suo leader di affrontare la questione con chiarezza oggettiva.

A scuoterlo sono però soprattutto le prossime elezioni per il seggio presidenziale, su cui Biden siede incerto: nuovi sondaggi mostrano il 63% dei democratici ostili alle azioni di Israele, con cifre che salgono al 67% per gli under 35 e al 64% per elettori appartenenti a minoranze, con un aumento nel sostegno ai palestinesi dell’11% rispetto all’anno scorso. 

Questo scatena potenziali effetti collaterali in Stati come Michigan, Georgia e Pennsylvania, dove risiedono importanti blocchi elettorali di arabo-americani (il cui assenso a Biden è crollato dal 75% al 29%).

Anche la posizione geopolitica del presidente è in pericolo, dato che diverse nazioni tra cui Canada, Olanda e Danimarca stanno considerando un’interruzione completa degli aiuti militari a Israele, che viene così sempre più isolato. 

Se si aggiunge la campagna di Donald Trump per la rielezione, si capisce come la pericolante amministrazione di Biden stia modificando di tutta fretta il suo corso nel tentativo di mantenere almeno una percentuale dei suoi vecchi elettori.

I molteplici ammonimenti contro Israele, tuttavia, non sono stati seguiti da un cambiamento concreto – sollevando dubbi sulla loro effettiva credibilità. 

Secondo Joe Cirincione, analista della sicurezza nazionale statunitense, questa nuova politica difficilmente darà risultati migliori della prima, poiché non è sostenuta da nulla se non da retorica. L’unico modo per rendere credibile l’influenza americana su Israele, sostiene, è porre condizioni sugli aiuti degli Stati Uniti. «Si potrebbe smettere di rifornire Israele con bombe e di inviare proiettili di artiglieria», ha continuato. «Se vuoi che Israele fermi il massacro di massa, non inviare loro le armi che sta usando per commetterlo». 

L’idea è stata sostenuta attivamente dal Senatore del Vermont Bernie Sanders, che ha scritto una lettera invitando i colleghi a opporsi all’invio di aiuti. «Non credo che dovremmo stanziare 10 miliardi di dollari per il governo estremista di Netanyahu così che continui la sua attuale strategia militare. Ciò che il governo Netanyahu sta facendo è immorale, viola il diritto internazionale, e gli Stati Uniti non dovrebbero essere complici di queste azioni», recita il comunicato. 

Netanyahu cercherà comunque di mantenere il controllo fino a novembre, in tempo per le elezioni presidenziali americane, puntando tutto sulla rielezione di Donald Trump, che aprirebbe nuove prospettive per una rinnovata collaborazione.

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