Domenica 4 febbraio Ousmane Sylla, guineano di 22 anni, si è suicidato nel Cpr di Ponte Galeria, a Roma. Detenuto da otto mesi, ha messo fine alla sua vita non prima di aver inciso sul muro della cella alcune parole con cui augurava alla sua anima di poter riposare in pace. Parole che hanno subito infiammato gli altri ospiti del Centro, che si sono uniti in una furiosa rivolta contro gli operatori interni e le forze dell’ordine.
Una pioggia di lacrimogeni ha spento la sommossa, ma non l’amarezza per il ventunesimo suicidio dietro le sbarre dall’inizio dell’anno. E non ha spento neppure l’esigenza di fare chiarezza su un sistema di detenzione – quello dei Centri di permanenza per il rimpatrio – che può e deve essere migliorato.
I Cpr sono centri di detenzione amministrativa, destinati al trattenimento delle persone straniere irregolari nei confronti delle quali sia stato emesso un provvedimento di espulsione: in attesa che questo possa avere esecuzione, il pericolo di fuga del destinatario del provvedimento viene scongiurato con la detenzione. Il trattenimento è quindi determinato da ragioni meramente amministrative – come la mancanza o la perdita del necessario permesso di soggiorno – ma la privazione della libertà personale che ne consegue non è corredata di tutte quelle garanzie e principi che sono propri della giustizia penale.
Siamo di fronte a un binario punitivo autonomo, la cui normativa, complessivamente scarna e spesso incerta, ha portato a numerose violazioni dei diritti fondamentali dei trattenuti. Proteste, rivolte, suicidi sono soltanto alcuni dei segnali che abbiamo il dovere di cogliere per analizzare i maggiori punti critici di questo sistema.
Ad oggi la gestione dei Cpr, e quindi l’erogazione dei servizi per la persona, è assegnata a soggetti privati. Si tratta in gran parte di enti for-profit, che dichiaratamente perseguono finalità di lucro. Gli appalti sono assegnati, attraverso gare aperte, sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Risultato? Come evidenziato dall’associazione Antigone e CILD (Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili) in un documento presentato in Parlamento a ottobre 2023, la privatizzazione del sistema ha fatto emergere due tendenze – potremmo dire inevitabili: la ricerca della massimizzazione dei profitti da parte delle imprese che gestiscono i Centri e la spinta alla minimizzazione dei costi da parte dello Stato.
Offerta più vantaggiosa, maggiori possibilità di ottenere l’appalto.
I concorrenti puntano sul ribasso e l’effetto finale è quello di ridurre sempre di più (se non al minimo) la qualità dei servizi erogati in favore dei trattenuti. Insomma, standard qualitativi delle condizioni di detenzione e tutela dei diritti subordinati a logiche di convenienza economica e privazione della libertà personale ridotta a fonte di lucro.
Le rivolte dei trattenuti, animate dalla volontà di denunciare le condizioni di detenzione troppo spesso inumane e degradanti, non sono mancate. Dai quindici ospiti del Cpr di Roma che nel 2013 si cucirono le bocche con ago e filo, agli incendi appiccati dai trattenuti del Cpr di Torino che nel marzo 2023 hanno portato alla chiusura del Centro, fino ad arrivare a Milano e a quei corpi nudi sull’asfalto sotto la pioggia, corpi di persone che nella notte dell’11 febbraio hanno compiuto un atto di protesta contro le pessime condizioni del Centro.
E non si tratta di percezioni distorte o insofferenze esagerate: nel dicembre 2023 il Cpr di via Corelli è stato sequestrato e commissariato a seguito di un’inchiesta della Procura di Milano che ha messo in luce la cattiva gestione della struttura. Bagni e camere in condizioni disumane, cibo avariato, prestazioni sanitarie carenti, mancanza di servizi di mediazione culturale: gli inquirenti hanno accertato l’assenza o comunque la grave insufficienza dei servizi che l’ente gestore del Centro aveva promesso nell’offerta tecnica grazie alla quale si era aggiudicato l’appalto. Si trattava – ricordiamo – dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Come stabilito dall’articolo 3 del Regolamento Unico CIE, la visita medica di idoneità rispetto al trattenimento dello straniero nel Centro dovrebbe essere effettuata dai medici delle ASL territorialmente competenti (per ragioni di imparzialità). Si tratta di accertare l’assenza di patologie che rendano incompatibile il trattenimento della persona nella struttura.
La prassi si è rivelata diversa dalla normativa: in molti casi le visite sono effettuate dai medici convenzionati con gli enti gestori ed in modo approssimativo. Questo – come evidenziato dall’associazione Antigone insieme a CILD – ha portato a trattenere persone che, a causa di determinate patologie, non erano idonee alla reclusione e non avrebbero dovuto essere trattenute.
Inoltre, a differenza di quanto accade nelle carceri, la gestione dei servizi di assistenza sanitaria non è assegnata al SSN (Servizio Sanitario Nazionale), ma ai medici incaricati dagli enti gestori delle strutture. In poche parole, la privatizzazione ha riguardato anche la salute e la sua tutela. Numerose tuttavia sono le criticità emerse rispetto all’erogazione dei servizi garantiti, a partire dall’insufficienza del monte ore settimanale del personale sanitario.
Nemmeno l’assistenza psichiatrica è sfuggita all’attrattiva della gestione privata, con un rischio evidente: quello di subordinare la somministrazione di psicofarmaci alla soddisfazione di esigenze di controllo dei trattenuti e di mantenimento dell’ordine all’interno delle strutture.
«Mentre sono addormentati o storditi, le loro richieste diminuiscono: così le persone trattenute nel Centro di permanenza per il rimpatrio non mangiano, non fanno ‘casino’, vengono rimpatriate e non pretendono i propri diritti» ha dichiarato un operatore di un Cpr ad Altreconomia, in un’inchiesta che ha messo in luce l’abuso di psicofarmaci nei Cpr italiani.
Assistenza sanitaria inadeguata, informazione legale pressoché inesistente, cibo scaduto, alloggi troppo freddi d’inverno e troppo caldi d’estate, atti di autolesionismo. Si tratta della realtà raccontata dall’associazione Naga in uno studio realizzato grazie a un anno di osservazione del Cpr di via Corelli, a Milano, studio che ha contribuito a fornire elementi di indagine ai magistrati che hanno messo sotto sequestro il Centro di detenzione.
Il quadro che emerge dall’analisi di queste strutture è a dir poco problematico.
Ma questo sistema di detenzione è almeno in grado di assolvere alla funzione per cui nasce, cioè rendere effettivi i rimpatri? La risposta la fornisce un rapporto realizzato da ActionAid, che mette in evidenza come i Cpr abbiano un impatto limitato sul numero di rimpatri effettivamente eseguiti. Nel decennio 2011-2021 la percentuale dei provvedimenti a cui è stato dato seguito non ha mai superato il 32%.
A fronte di questi dati e di tutte le problematiche evidenziate, a partire dalla violazione di diritti fondamentali, che affliggono i Cpr italiani, la volontà del Governo di aprire nuovi Centri nel territorio nazionale e la decisione di estendere fino a 18 mesi il periodo massimo di trattenimento non può che sollevare una serie di dubbi e perplessità in termini di etica prima ancora che di opportunità.
Gli episodi di violenza e sofferenza che da anni colpiscono i Centri di permanenza, tra cui da ultimo il suicidio di Ousmane Sylla, dovrebbero quantomeno indurci a pensare a una revisione profonda del sistema della detenzione amministrativa e a chiederci che cosa dal 1998 (anno di istituzione dei Centri) ad oggi non abbia funzionato.
Fonti:
Buchi Neri. La detenzione senza reato nei CPR – CILD
Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri – ActionAid
Commento al decreto-legge n. 124 del 2023 – Antigone e CILD