Questo è il finale che abbiamo concepito quando abbiamo ideato la serie, dieci anni fa. Ed è il motivo per cui abbiamo continuato a scriverla con la stessa costanza da allora.
Col senno di poi, ci aveva già pensato Carter Bays a riassumere le peculiarità e le contraddizioni su cui poggia l’ultimo atto di How I Met Your Mother. Dalle sue dichiarazioni del 2014 (rilasciate all’indomani della messa in onda degli episodi conclusivi della sitcom, giunta alla nona stagione), traspariva il senso di una scelta obbligata, il coronamento naturale di un percorso che fin lì non aveva seguito tappe prestabilite, ma di cui lo sceneggiatore statunitense, in coppia con il sodale Craig Thomas, teneva a mente la meta fin dal primo giorno.
L’insoddisfazione della critica e del pubblico per quel Last Forever che in poco meno di tre quarti d’ora avrebbe dovuto chiudere i conti con nove anni di trame, era una diretta conseguenza del doppio binario lungo cui il processo creativo di How I Met Your Mother si era mosso fino a quel momento.
Il racconto in prima persona di Ted Mosby, della sua ricerca dell’anima gemella, degli ostacoli incontrati per strada e dei profondi rapporti di amicizia stretti con Barney, Marshall, Lily (e Robin), si stava dilatando a dismisura. Già da qualche anno gli autori avevano cominciato a mostrare un interesse eccessivo per i subplot più marginali e le running gag di minore impatto sul pubblico, ascrivendo implicitamente questi “difetti” all’affabulazione logorroica di Ted. Il narratore inattendibile per eccellenza, l’uomo dal quale era lecito aspettarsi tanto un resoconto veritiero quanto un castello di bugie, edificato per giustificare la propria condotta di gioventù al cospetto dei suoi due figli.
Allo stesso tempo, però, Bays e Thomas erano ben consapevoli che prima o poi sarebbe arrivato il momento di dare un taglio netto alla storia.
Lo garantiva il titolo stesso della sitcom, che prometteva fin dalle riprese del primo episodio un epilogo coerente con tutto quello che si sarebbe visto negli anni a venire, a prescindere da come e quanto avrebbe potuto svilupparsi il progetto. A monte c’era quindi la volontà di sbozzare i personaggi, di non porsi troppi vincoli nella gestione di certe sottotrame e di farsi trasportare in territori vergini col passare delle stagioni. A valle, la scelta di trincerarsi dietro a un finale già scritto in precedenza, ignorando le evoluzioni caratteriali dei cinque amici e obbedendo ciecamente alla propria visione iniziale.
Questi due aspetti hanno costituito per quasi un decennio gli estremi di una gabbia concettuale senza vie di uscita, i cui effetti negativi si sono visti proprio in corrispondenza della nona stagione di How I Met Your Mother. Criticata, bistrattata e disconosciuta dai fan più talebani, continua a far parlare di sé fin dall’uscita dell’episodio finale, da cui ormai sono trascorsi dieci anni. Un tempo sufficiente per tornare a interrogarsi sulla sua qualità complessiva, che non può essere così scarsa come spesso si è scritto se persino su IMDB – il più importante sito di recensioni di film e serie tv al mondo – tanto l’episodio dall’indice di gradimento più alto (How Your Mother Met Me) quanto quello più detestato in assoluto (Last Forever: Part Two) appartengono proprio a questa run conclusiva.
Può essere utile ricordare che nel settembre 2012, alle porte dell’ottava stagione, Carter Bays e Craig Thomas credevano che lo show avrebbe potuto concludersi già a maggio dell’anno successivo. Il rinnovo per un altro anno fu concordato in corso d’opera con i produttori, imponendo alla writers’ room uno sforzo suppletivo per aggiungere altra carne al fuoco senza sbilanciare troppo la narrazione, escogitare un buon cliffhanger per l’ultima puntata e ribadire il carattere “definitivo” ed estremo dell’arco narrativo seguente, per non lasciare dubbi circa un possibile sequel.
Bays e Thomas decisero quindi di introdurre la Madre nell’ultimo frame dell’ottava stagione e di ambientare per intero la nona nei due giorni e mezzo che precedono le nozze tra Barney e Robin, giocando per oltre venti puntate sul fattore chiave dell’intera serie: il tempo, nelle sue mille distorsioni e riallacciature possibili.
Grande rilevanza avrebbe dovuto assumere finalmente “the One“, la ragazza con l’ombrello giallo che a più riprese era stata presentata come la madre dei figli di Ted, ma di cui non si sapeva praticamente ancora nulla dalle stagioni precedenti. Lo spettatore poteva comunque tracciarne un identikit in absentia, escludendo le caratteristiche delle innumerevoli altre ragazze frequentate da Ted nel corso degli anni e ipotizzando una forte analogia con quest’ultimo in fatto di gusti, abitudini e tratti caratteriali, come il piglio romantico o la tendenza a interpretare ogni accadimento come un possibile segno del destino.
A conti fatti, una delle critiche più accese che sono state mosse al finale di How I Met Your Mother (quella secondo cui gli autori avrebbero sbagliato a condensare in pochi minuti l’idillio amoroso tra Ted e Tracy, escludendo quest’ultima dagli sviluppi della serie) regge fino a un certo punto. Sul passato del personaggio fu speso un intero episodio, peraltro tra i più riusciti della stagione:
il già citato How Your Mother Met Me, che in venti minuti condensa con garbo otto anni della travagliata vita della giovane donna.
Gli autori gestirono la sua figura con grande cura, dandole le sembianze di un’allora semi-sconosciuta Cristin Milioti e mostrandola per la prima volta soltanto agli spettatori, per poi farla conoscere gradualmente a Lily, Barney, Marshall e Robin, avvicinandola via via a Ted. Sempre tenendo presente che la sitcom è narrata dal punto di vista di quest’ultimo, è perfettamente naturale che Tracy sia stata presentata come un personaggio pienamente positivo, se non addirittura salvifico. Di sicuro la sua purezza virginale studiata a tavolino stride in confronto alla complessità dei cinque protagonisti, i cui aspetti deteriori sono emersi praticamente in ogni puntata per più di otto anni.
Ed è forse questo il motivo per cui Bays e Thomas hanno preferito soffermarsi il meno possibile sul rapporto tra Ted e la Madre, perché in fondo l’interrogativo sull’identità di lei è sempre stato un telefonato MacGuffin, poco più che un pretesto per esplorare le dinamiche di un gruppo di amici dal punto di vista di un uomo che quegli amici, ormai, li ha persi per strada (anche in conseguenza dell’incontro con “the One”).
Non è certo sul rapporto tra Ted e Tracy che si è sostanziata How I Met Your Mother fin dall’episodio pilota, ma su quello tra Ted e Robin. Una love story tossica e intermittente, osteggiata dalle diverse ambizioni dei due partner. Da un lato, un uomo alla ricerca della moglie perfetta, facile preda delle idealizzazioni e dei sogni a occhi aperti; dall’altro, una donna che non vuole saperne di relazioni stabili e che si tiene stretta la propria indipendenza a costo di convivere in solitudine con le proprie fragilità.
Le continue dinamiche di riavvicinamento e separazione orchestrate dagli autori avevano finito per confinare l’architetto e la reporter in una friendzone piuttosto scomoda, dalla quale solo due “terzi incomodi” come Barney e Tracy avrebbero saputo tirarli fuori. Perlomeno fino alla fine dei rispettivi rapporti.
La seconda debolezza vistosa del finale, che già dieci anni fa aveva fatto gridare al tradimento milioni di spettatori delusi, riguarda proprio la gestione del triangolo Ted-Barney-Robin. Ancora oggi c’è chi può storcere il naso per il divorzio della coppia, menzionato frettolosamente nel corso di Last Forever dopo che la sitcom si era concentrata per oltre sei mesi sui preparativi del loro matrimonio.
E c’è chi si lamenta per la caratterizzazione monodimensionale di Barney, che nel corso degli anni si era trasformato da semplice spalla comica a chiave-di-volta dell’intera serie.
Personaggio imprevedibile, motore di ogni sottotrama, uomo pieno di difetti ed esigenze malgrado il lusso dietro cui si nasconde, capace di slanci di spontaneità e candore pressoché assenti nel finale di stagione, se non in forma posticcia (la stucchevole dichiarazione d’affetto nei confronti della neonata figlia illegittima, preceduta a stretto giro dall’ennesima battutaccia gratuita sul diventare genitori).
Sulla carta, invece, l’idea di concludere la serie con un riavvicinamento tra Ted e Robin nel presente (cioè nel 2030, anno in cui Ted narra ai propri ragazzi «how he met their mother») non ne tradisce affatto lo spirito, anzi. Che il protagonista in piena crisi di mezza età decida di rifugiarsi nel passato, compiendo lo stesso errore di gioventù e presentandosi alla finestra della donna che ancora ama, ma con la quale non ha mai funzionato, è un epilogo più agrodolce che lieto, in linea con gli standard di un’opera che aveva abituato il suo pubblico al fallimento dei propri personaggi, specie sul piano professionale (gli insuccessi di Marshall in tribunale; i fiaschi di Lily come pittrice; le frustrazioni di Ted, che rimarrà un architetto di carta; la fama tardiva di Robin come reporter).
Purtroppo, anche tenendo per buona questa interpretazione dell’epilogo, la sua scrittura non si è dimostrata all’altezza. Quel siparietto tra Ted e i figli al termine del racconto, dove i ragazzi fanno notare al padre che l’unico motivo per cui ha narrato questa storia è dimostrare a se stesso di essere ancora innamorato della “zia” Robin, è una sottolineatura gratuita e inverosimile, un finale premasticato che svilisce il personaggio di Ted e azzera di colpo la complessità del suo discorso.
Non può bastare una blanda reazione incredula della figlia («Tutto qui? No, non me la bevo.») per innescare un’epifania di questa portata. Eppure, era la conclusione a cui Bays e Thomas avevano pensato fin dall’inizio, girandone alcune scene già ai tempi della seconda stagione per evitare che Lyndsy Fonseca e David Henrie (i due attori scritturati per le parti dei figli) invecchiassero troppo in fretta in vista di quelle riprese.
Uno scivolone nei minuti finali condiziona certamente la percezione generale dell’operazione, ma non può davvero inficiarne la tenuta complessiva. Last Forever è un concentrato di alti e bassi, un piccolo compendio della filosofia di How I Met Your Mother, i cui assunti-cardine riemergono in vari frangenti in maniera esplicita.
Come nel finale della prima parte, quando Robin prende atto del proprio fallimento matrimoniale e sbatte in faccia a Lily le ragioni del deterioramento dei rapporti tra i cinque amici, data la loro tendenza a perseverare nell’errore e a non maturare mai per davvero (perlomeno, non di fronte agli spettatori). In poco più di dieci anni Ted, Barney, Robin, Lily e Marshall non sono forse mai nemmeno cresciuti, ma semplicemente invecchiati, travolti dallo scorrere del tempo e dalle sue beffarde sfasature; «timing is a bitch», rilevava la stessa Scherbatsky in un episodio di qualche anno prima.
Il finale di How I Met Your Mother, lungi dall’essere totalmente “sbagliato” come inveirono in molti dieci anni fa, era quindi un’ulteriore conferma della natura anticonvenzionale di questa sitcom, che inciampava vistosamente nel voler chiudere i conti a tutti i costi con se stessa, facendosi fagocitare dalla sua stessa filosofia autolesionista e distruttiva.
Articolo di Emanuele Rossi Ragno