“Quando morrò, seppellitemi sull’alta collina, nella nostra steppa della bella Ucraina, che si vedano i campi”.
Con occhi languidi e la dolce malinconia verso un futuro che non si è ancora adempiuto e forse non si adempirà mai, Taras Hryhorovyč Ševčenko rifletteva a proposito della sua Ucraina, terra invasa, tormentata dal dominio della forza zarista che, lungo il primo ‘800, gettava le fondamenta di un rapporto quantomai controverso, di una storia di scontri e dominazioni, che cela dietro all’auspicio del suo poeta più celebre e significativo, un’ombra che da due anni a questa parte si riversa più fitta.
Nella notte fra il 24 e il 25 febbraio 2022, dopo aver riconosciuto le repubbliche popolari del Donbass tre giorni prima, le forze armate russe irrompono nel territorio ucraino nel segno di un’operazione di “pacificazione”, intenta a scardinare il governo di Volodymir Zelensky.
In sè, il conflitto su cui l’informazione odierna si spinge massimamente non riguarda però più centralmente quel tipo di scontro, quel tipo di guerra, quel tipo di numeri, di morti ucraini e russi e di case e ospedali rasi al suolo. La storia che ai nostri occhi, prima, era scontro di forze armate, ci ha messo poco più di un anno per divenire scontro di civiltà, di culture, di libertà.
La concentrazione bellica si è infatti diramata su un altro discorso, quello intellettuale. Russia-Ucraina è soprattutto questo: personalità che di fronte ad una domanda, non trovano più una risposta univoca. Come spesso accade, nel conflitto si innesta un dato unico: in questo caso ci proietta dinnanzi ad una vicenda di dominazione e delegittimazione di un potere democratico, che, perdendo progressivamente la supremazia mediatica, viene tiepidamente riconsiderato, ridiscusso, compromesso da avvenimenti interni che a periodi sporadici gonfiano la notizia. Così facendo, il dato dell’invasione si scompone, riducendosi a opinione, prima di un agglomerato di altre.
Fra le frastagliate notizie che solcano l’opinione pubblica, una fra queste ha fatto particolarmente scalpore: quella di un artista italiano che intende riconoscere Vladimir Putin come uomo, come essere umano tale e quale a noi, chiedendo da lui l’atto più semplice e al tempo stesso emblematico della sua generazione, una foto che li ritragga insieme, un momento di quotidianità, che allontani il leader politico russo dagli ingranaggi della geopolitica, dal conflitto armato; un momento quasi estemporaneo.
Nella richiesta di Jorit al festival della Gioventù di Sochi, si racchiude un’istantanea rappresentativa del modo di sentire la politica e di restituirla di conseguenza. Quello che preme all’artista di strada non è la verità, quell’opprimente desiderio di conoscere cosa si celi dietro le macerie di Kyiv, di Mariupol, dietro le morti degli oppositori in ultimo Navalny; l’unica reale domanda richiede un frammento di umanità, una riprova che ciò a cui stiamo assistendo è opera di chi è disposto a ritrarsi in posa.
Spogliando un simile dato dalle implicazioni politiche che comporta, ciò che emerge alla radice di un approccio come quello di Jorit, si riconduce ad un urlo smodato alla semplificazione, una ricerca ostinata di onesta e ingenua superficialità, in mezzo al turbinio caotico nel quale il cittadino medio deve gettarsi per ottenere un quadro di realtà. Una domanda così profondamente intrisa di un pensiero e di una connotazione ben precisa, quella che l’artista napoletano ha da sempre affermato, legata ad una filosofia, la sua, tesa all’opposizione nei confronti dell’Occidente in quanto autorità e potere a cui sottostare, in verità nasconde un principio universale, caro al modo di pensare politica nel nostro tempo: l’amore per l’appiattimento, la perversione per la ricerca di unicità nella disunione.
La logica che governa quello scambio così eccentricamente genuino, è dimentica dei 2 anni appena passati come ignara della memoria collettiva, della massa di nozioni che hanno attraversato il nostro secolo e i secoli precedenti, e sia a Jorit, sia a Putin va bene così.
Il grande problema che costituisce quella domanda è proprio che non ammetta una risposta più ampia, ma soltanto la dimostrazione che voleva confermare.
Nell’esempio di un apparentemente innocuo scambio di battute, si anela una brutale condizione in cui riversa la domanda stessa, proposta nei mass media: ognuno di noi è Jorit, ognuno di noi legge e chiede, perché ottenga ciò che pensa. In questo modo il desiderio che ci riconduce alla lettura di un articolo, alla formulazione di una domanda, viene assopito e atrofizzato dalla necessità di ricreare quella posa, quella fotografia inautentica di una guerra di cui preferiamo ignorare il disordine.