In occasione dell’otto marzo, la redazione di Vulcano Statale riflette sul valore di una lotta inclusiva, intersezionale, transfemminista.
La lotta al patriarcato è una lotta collettiva, di Matilde Elisa Sala
Il patriarcato è «un tipo di sistema sociale in cui vige il “diritto paterno”, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani».
Patriarcato. Quante volte dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin, grazie ai molteplici interventi della sorellaElena, abbiamo sentito questa parola? Tantissime, ma ancora non sufficienti. La società odierna non sembra voler accettare di essere fortemente e intrinsecamente patriarcale. In effetti fa quasi strano parlarne ancora nel 2024… patriarcato: un concetto che ha radici così antiche, ma ha una valenza ancora attuale.
Quante volte è capitato a una donna di ricevere commenti indesiderati per strada? Quante volte di sentirsi dire di non meritare il proprio posto di lavoro e che sicuramente, per arrivare dov’è, l’avrà sicuramente “data via” a qualcuno? Quante volte è stata costretta a rinunciare a un lavoro perché incinta? Quante invece è stata messa in dubbio la parola di una donna che ha denunciato? A quante sex workers è stato dato delle troie, quante sono state oggetto di insulti che gli uomini non subiscono? A quante è stato detto come sarebbe meglio vestirsi o truccarsi, cosa devono fare con il proprio corpo?
E tante, troppe domande di questo tipo, che hanno un’unica semplice spiegazione: la violenza di genere, fisica e verbale, la disparità salariale, un giudizio o una battuta sessista fanno parte di un mondo patriarcale; il possesso e il controllo fanno parte di una cultura patriarcale.
Patriarcato non è una parolaccia e non è uno strumento per fare politica: il patriarcato è la nostra realtà e bisognerebbe prenderne consapevolezza. Non bisogna aver timore di usare questo termine, forse avremmo dovuto urlarlo molto prima.
Il patriarcato è una cultura, tramandata e appresa in questo modo perché è sempre stato così.
Noi invece non vogliamo affatto che sia ancora così: se il patriarcato è cultura, allora che si riparta dall’educazione. Si insegnino l’affettività e la sessualità, si insegnino il rispetto e l’uguaglianza. Ci si renda presto conto che abbiamo bisogno, nero su bianco, di un diritto che ci permetta di abortire se lo desideriamo e che ogni singola scelta personale deve essere accettata senza contestazioni.
La storia ci ha insegnato che spesso la scarsa acculturazione rende le persone più manovrabili: non facciamoci manovrare, non più, informiamoci e educhiamoci.
In occasione della Giornata Internazionale dei diritti della Donna vorrei che iniziassimo a ragionare un po’ di più. Vorrei che alcuni uomini smettessero di vittimizzarsi, pensando che, con questa lotta, stiamo riversando su di loro la colpa di essere uomini. Vorrei smettessimo di sentirci giudicate per il modo di vestire, per cosa preferiamo leggere o guardare, o per come decidiamo di vivere la nostra sessualità. Vorrei anche smettessimo di giustificarci perché le uniche persone a cui dobbiamo rendere conto siamo noi stesse.Vorrei anche lottassimo insieme contro questi ideali patriarcali, perché il patriarcato è una lotta collettiva. L’8 marzo non deve essere solo oggi. L’8 marzo deve essere ogni giorno.
Se vogliamo un cambiamento, iniziamo a esserne il motore.
Non è ancora la stagione delle mimose, di Nina Fresia
La Giornata internazionale della donna è spesso indicata come una “festa”: se accettassimo quest’accezione della ricorrenza, allora cosa si dovrebbe regalare a chi viene celebrato?
La risposta è alla portata di tutti: al milione di donne che abitano la Striscia di Gaza servono assorbenti. Perché oltre all’estrema scarsità di acqua, cibo ed elettricità, manca loro la possibilità di garantirsi un’adeguata igiene anche intima. Sono costrette a lavarsi con lo shampoo, se non con il detersivo usato per pulire i pavimenti. La guerra le obbliga a usare la poca acqua a disposizione per inumidirsi la bocca nel tentativo di non morire disidratate e per questo sviluppano disturbi e infezioni. Alle donne palestinesi si potrebbero anche donare ospedali integri, non distrutti dalle bombe, cosicché i medici non sarebbero costretti a effettuare cesarei senza anestetici e riuscirebbero a completare i cicli di chemioterapia.
Le donne vittime degli attacchi perpetrati da Hamas in Israele il 7 ottobre vorrebbero invece ricevere giustizia: in molti casi, secondo un rapporto dell’ONU, non sarà possibile rilevare le prove legali di violenza sessuale. Le donne israeliane stuprate sono state uccise (subendo talvolta molestie anche da decedute) e i loro corpi in alcuni casi bruciati.
Alle adolescenti sudanesi si potrebbe dare attenzione: secondo alcune stime, più di quattro milioni di donne e ragazze nel paese sono potenziali vittime di violenza. E il silenzio che aleggia intorno al conflitto in Sudan è complice dei danni fisici e psicologici che subiscono e subiranno. Le 43.000 donne dell’esercito ucraino che stanno combattendo contro le forze russe chiedono, infine, armi per potersi poi regalare da sole un paese libero.
Solo quando avremo distribuito questi doni e fatto tutto il possibile per far sì che non si rendano più necessari, allora potremo regalare alle donne una bella mimosa per festeggiare.
La violenza di genere oggi come ieri, di Petra El Charif
Ogni 8 marzo si celebra la giornata internazionale della donna, occasione per commemorare le conquiste sociali ma anche per riflettere sulle sfide ancora presenti.
Tra queste, la violenza di genere rimane una problematica diffusa, di difficile misurazione, essendo per lo più un fenomeno sommerso e dalle molteplici sfaccettature, comprendente le molestie sessuali, la violenza psicologica, lo stalking, la violenza fisica e la violenza sessuale. Secondo i dati Istat, il 31,5% delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale e il 21,5% ha subito comportamenti persecutori da parte di un ex partner nell’arco della propria vita.
Secondo dati riportati dal Ministero dell’interno, nel 2023 sono state uccise 106 donne, di cui 87 in ambito affettivo/famigliare. La lotta contro la violenza di genere richiede un sistema integrato a livello nazionale e internazionale.
Ad oggi, a livello Europeo, lo strumento più importante per combattere la violenza sulle donne è la Convenzione di Istanbul, trattato internazionale vincolante entrato in vigore nel 2014.
La Convenzione di Istanbul nasce dalla necessità di implementare ulteriori misure contro la violenza di genere, oltre a quelle già esistenti negli Stati membri del Consiglio d’Europa, che però sono spesso mal applicate: in molti Paesi i servizi per le vittime rimangono scarsi o insufficientemente finanziati. A seguito della Convenzione di Istanbul, l’Italia ha adottato piani di prevenzione e istituito diverse commissioni d’inchiesta per il contrasto alla violenza di genere.
Nel 2019 il “Codice Rosso” diventa legge, introducendo una procedura velocizzata per le denunce e le indagini sui casi di violenza di genere. Nel novembre 2023 è stato approvato in via definitiva il ddl per il contrasto alla violenza sulle donne proposto dal governo Meloni, che punta a rafforzare la protezione delle vittime di violenza attraverso misure preventive e il potenziamento delle misure cautelari. Inoltre, vi è un primo timido passo verso il coinvolgimento delle scuole nella lotta contro le discriminazioni di genere: saranno finanziati gruppi di discussione tra studenti e professori per 30 ore complessive extracurricolari.
Tuttavia, le misure adottate fino ad oggi risultano inefficaci: da parte del movimento femminista continua ad esserci la richiesta di un piano strutturale a lungo termine, che riconosca la radice culturale del fenomeno e, di conseguenza, abbia come punto fondamentale di inizio le scuole e soprattutto l’educazione sessuale, che pare essere, ancora oggi, un taboo.
Anche la salute mentale femminile è cruciale, di Leonardo Donatiello
L’8 marzo è una ricorrenza che ha sempre posto l’attenzione sui diritti e le conquiste faticosamente ottenute dalle donne nel corso della storia. Il miglioramento progressivo delle condizioni di vita femminili però, non si attua semplicemente con la memoria, ma anche fornendo degli strumenti culturali alle persone per continuare a emanciparsi.
Informazione e divulgazione in questo senso, si rivelano fondamentali. A questo proposito, è ora di inoltrarci in un argomento tanto importante quanto di gran lunga sottovalutato, ovvero il tema della salute mentale femminile. L’8 marzo infatti è forse il momento più opportuno per ricordare, oltre alla violenza e alla disparità di genere, quanto sia essenziale prendersi cura della propria mente.
La consapevolezza di un problema tuttavia, non va di pari passo con la possibilità di risolverlo; secondo il Gender Equality Index 2021 infatti, il 39% delle donne sostiene di non potersi permettere economicamente un percorso psicologico. Ciò si lega chiaramente alla scarsa remunerazione femminile, ancora troppo inferiore rispetto ai lavoratori del sesso opposto. In Europa, consultando i dati Eurostat del 2021, le lavoratrici guadagnano il 12,7% in meno rispetto ai colleghi uomini. Numeri incontrovertibili che, oltre ad avere una diretta conseguenza sull’accesso alle cure psicologiche, ricadono anche sulla salute mentale stessa.
Le preoccupazioni economiche unite al sovraccarico lavorativo, alla discriminazione sessuale e soprattutto al ruolo di cura, tanto dei figli quanto della casa, che tradizionalmente e culturalmente è stato imposto al genere femminile, hanno aumentato i casi di attacchi di panico e di eventi depressivi.
Il covid purtroppo ha poi esacerbato questa condizione, sia perché il virus è andato a colpire principalmente le donne, sia perché quest’ultime, da caregiver, hanno vissuto in prima persona la malattia dei più anziani, portandosi dietro tutte le conseguenze emotive del caso.
Questi dati sono sconfortanti e andrebbero presi seriamente in considerazione dalle autorità competenti. Il governo italiano, a questo proposito, ha esteso il bonus psicologo anche al 2024, stanziando circa 10 milioni di euro. Il problema, come sottolineato dagli addetti ai lavori, è che questa misura risulterebbe ancora tutt’altro che sufficiente, prima di tutto perché inadempiente rispetto all’allargamento delle reti pubbliche di sostegno psicologico e in secondo luogo perché non incline a favorire chi è fuori da un sistema di aiuti, ma solo chi vi è già all’interno.
Considerando poi che sono proprio le donne ad avere meno possibilità economiche, risulta logico che una norma così poco impattante risolva poco o niente. Si attendono dunque nuovi sviluppi e si auspica che questa giornata possa davvero muovere la politica a definire un programma consistente di aiuti a favore del benessere mentale femminile.
Le donne nella scienza, di Giulia Maineri
Le statistiche che riguardano il numero di donne nel mondo della scienza sono ancora poco incoraggianti. In Italia solo l’8% delle donne ha una laurea in materie STEM. Nel libro “Per soli uomini”, l’autore spiega che il gender gap verrà colmato tra circa 260 anni nel settore della fisica.
Eppure l’assenza della presenza femminile in questo mondo è una grave perdita per tutti. Non solo per le donne che ne rimangono escluse, ma anche per gli uomini che ne fanno parte. La scienza non è un gioco, ma il motore del nostro progresso tecnologico. Si parla sempre delle difficoltà delle ragazze nel mondo della ricerca con frasi generali e qualunquiste, dispiacendosi per l’opportunità di cui vengono private. Ma non si parla mai dell’opportunità che perdiamo tutti noi, come società, ogni volta che una ragazzina a cui piace la fisica viene costretta a iscriversi a lingue.
La mente di uomini e donne ragiona in maniera differente, l’approccio a certi problemi è diverso.
Raggiungere la parità di genere non vuol dire appiattire le differenze che ci sono, ma trarne beneficio, metterle a disposizione della comunità. Quello che a volte manca in certi ambienti di ricerca, è proprio un approccio empatico. Lo stesso approccio che servirebbe per capire che questo problema lo si risolve insieme e non dall’alto verso il basso, in modo orizzontale e non verticale.
Dal 2023 l’INFN bandisce annualmente un concorso aperto alle sole studentesse, in palio 25 borse di studio come incentivo per la prosecuzione degli studi nel campo. In occasione della cerimonia di premiazione, la scena che attende le studentesse sembra uscita direttamente dal film di Barbie. Una schiera di uomini a presentare la cerimonia e consegnare l’attestato. Bisognerebbe partire da questo, qualcosa di molto semplice: rendersi conto che molte ricercatrici relegate a tenere le esercitazioni dei corsi sarebbero più che adeguate a tenere l’intero corso come professoresse associate, accorgersi del fatto che se ai vertici di associazioni importanti come l’INFN non c’è nemmeno una donna forse non è per scarso merito.
Nell’attesa di un tempo in cui non saranno più un’eccezione, continuiamo a celebrare le donne che sono riuscite a rivestire ruoli importanti in ambito scientifico e soprattutto a incoraggiare un cambiamento di rotta negli ambienti scientifici: si può fare.
Non dovrebbe parlare di diritti riproduttivi chi non è donna, o meglio: chi non ha un utero, di Michele Cacciapuoti
Questa frase, apparentemente tanto radicale se presa alla lettera, cela un significato in realtà basilare: innanzitutto non si intende “parlare” nel vero senso del termine, quanto piuttosto come possibilità decisionale in campo legale.
Inoltre, non si nega la necessità di un coinvolgimento maschile nell’attivismo e nella legislazione sui diritti riproduttivi, anzi troppo spesso relegati a qualcosa che non interessa gli uomini. Piuttosto, idealmente tale coinvolgimento produrrebbe una legge libertaria, che sancisca il diritto di ognuno a decidere del proprio corpo. È qui che si inserisce il non intervento maschile nella questione: nel migliore dei mondi possibili, cioè, avremmo collettivamente deciso che sia affar nostro (in generale) che non sia affar nostro (nello specifico) la decisione in merito a ogni singola gravidanza.
Il principio alla base è dunque liberale e implica che a poter decidere in merito al proprio corpo sia solo ed esclusivamente l’individuo.
Il naturale corollario dello slogan di partenza non è dunque che a intervenire nella decisione possano essere solo le donne, bensì la donna: la singola donna in questione per la propria gravidanza.
Nonostante esempi di solidarietà di genere (nelle risposte elettorali alle politiche anti-abortiste americane e polacche), può capitare che segmenti femminili della società contestino questo diritto (in USA, in Italia) – come gli uomini, costoro hanno democraticamente voce in capitolo nella definizione di una legge; utopicamente, quest’ultima lascerebbe libertà di scelta al singolo individuo.
Parrà forse lapalissiano, alla luce della terminologia americana: pro-choice da un lato, favorevoli cioè alla libertà di scelta per l’individuo, e pro-life dall’altro, che valorizzano esclusivamente la “vita” del feto sulla volontà della donna. Eppure, almeno qui in Italia, la distinzione è spesso fraintesa: i pro-choice diventano pro-aborto, favorevoli non al diritto di abortire o partorire secondo una libera scelta, bensì personaggi fittizi che adorano l’aborto, che lo ritengono bello e mai sofferto, che vorrebbero costringere le donne a non partorire.
Solo così si spiega la retorica per cui i liberali diventano Meloni e Lollobrigida, che possono affermare di star tutelando «il diritto delle donne a non abortire». Non rimuovendo gli ostacoli economici alla maternità, ampliando cioè le opzioni disponibili (nonostante i finanziamenti ai CAV); bensì ostacolando le donne che vorrebbero abortire, difendendo un diritto limitandone un altro, restringendo le opzioni.
Tentando di vietare l’aborto farmacologico in day hospital, permettendo nelle Marche tassi di obiezione di coscienza impossibilitanti (in realtà già dai tempi del PD), proponendo l’obbligo di ascolto del battito cardiaco fetale prima dell’IVG (brutalità mutuata da Budapest), opponendosi all’aborto anche in caso di stupro. Salvo poi dire, nella stessa frase, che è la donna ad aver scelto consapevolmente di avere un rapporto sessuale.
Glossario: per “scelta consapevole”, viene da pensare, si intende supina accettazione del ruolo di generatrice di figli, il cui accesso agli anticoncezionali viene ostacolato.
Trigger warning: si tratta di inclusività, di Jessica Rodenghi
A volte passa l’idea che il femminismo riguardi solo le donne, in particolare le donne etero (provano attrazione verso persone del sesso opposto) e cisgender (la loro identità di genere coincide con ciò che i genitori hanno deciso alla nascita). In questo modo chiunque non sia tra queste persone non si sente coinvolto, sente il movimento come qualcosa che non lǝ riguardi.
Il movimento femminista è davvero solo “per le donne”?
Tralasciando le varie posizioni delle cosiddette TERF, ossia femministe trans-escludenti come la famosissima J.K. Rowling, che ha deciso addirittura di investire in associazioni che portano avanti azioni contro la comunità transgender, il femminismo si fonda sulla lotta contro il patriarcato. Se vogliamo aggiungere un termine in più, potremmo dire patriarcato eteronormato. Non tutte le persone femministe sono, infatti, eterosessuali e non tutt3 sono cisgender.
La lotta femminista è solo e soltanto intersezionale, altrimenti perde di senso come definizione.
Fin da quando nasciamo ci viene insegnato che un determinato colore ci rappresenta, che dobbiamo giocare con i giocattoli adatti al nostro genere, che possiamo o non possiamo metterci la gonna, oppure che ci deve piacere fare la lotta con l3 amic3. Ogni sanzione viene punita, i comportamenti “deviati” tornano alla regola.
Tutta la nostra vita viaggia sul binarismo di genere, che plasma il nostro modo di pensare al punto da renderci complicato comprendere qualcosa che stia al di fuori. Ma le persone della comunità LGBTQIA+ esistono e il patriarcato uccide anche loro, come chiunque faccia parte di una comunità marginalizzata.
Filomena “Filo sottile” nel suo libro Le Mostruositrans dice: «in questo mondo completamente binario, non siamo niente». È come se il femminismo fosse talmente inchiodato alle donne bianche dei primi movimenti, che è ancora difficile aprirsi ad una prospettiva intersezionale, che includa chiunque non sia una persona bianca, etero e cisgender.
Alla fine, il patriarcato colpisce tutt3. E non solo chi vive sulla propria pelle la violenza dalla marginalizzazione. Vivere secondo standard eteronormati e che calzano a pennello soltanto su alcuni, limita la possibilità di essere noi stess3 ogni giorno. È un discorso che vale per tutt3, anche per gli uomini, che da quando sono piccoli si sentono dire che non devono piangere, che non possono mostrare emozioni a meno che si tratti di rabbia. Il sistema patriarcale ingabbia tutt3 e il transfemminismo è un’alleanza che vuole liberare ognunǝ di noi, a prescindere da identità di genere, orientamento sessuale, colore della pelle e condizione economica.
Fonte: La mostruositrans, per un’alleanza transfemminista fra le creature mostre, Filomena “Filo Sottile”.