Nella notte tra il 10 e l’11 marzo il Dolby Theatre di Los Angeles ha ospitato la 96esima edizione degli Oscar, più formalmente Academy Awards, presentati per la quarta volta da Jimmy Kimmel.
Gli Oscar sono forse uno degli eventi più attesi: fortunatamente, ormai da qualche anno, un gran numero di spettatori si reca nelle sale cinematografiche per cercare di vedere più film possibili tra quelli candidati e cercare di arrivare pronto alla premiazione, qualsiasi sia il risultato. Un cinema come l’Anteo a Milano propone per esempio, proprio per coinvolgere più persone possibile e soprattutto giovani cinefili, di seguire la nottata direttamente in sala.
Un dato positivo è stato registrato proprio nel 2023, quando l’affluenza nelle sale cinematografiche è aumentata del 62% rispetto al 2022: tra i film che hanno registrato il maggiore incasso al box office ci sono proprio Barbie e Oppenheimer.
Tuttavia, a differenza dello scorso anno, quest’edizione degli Oscar ci ha regalato decisamente meno sorprese:
il trionfo di Oppenheimer e di Povere Creature! era abbastanza scontato visto il grande successo delle due pellicole in tutta la stagione di premiazioni. Così come non ci siamo stupiti di fronte alle vittorie dei Migliori Attori e Attrici sia Protagonisti che Non, anche loro già reduci da altri premi.
Nonostante ciò, tra una statuetta e l’altra, John Cena nudo e Ryan Gosling in veste di cantante (sì, non abbiamo ancora smesso di cantare I’m just Ken), la serata rimane una delle più memorabili dell’anno. Il 2023 ci ha regalato dei film meravigliosi e, che siano stati di grande successo o meno chiacchierati, hanno segnato la storia del cinema e rimarranno sulla bocca del pubblico ancora per molto tempo.
Il tema di questi premi, come del resto di altre kermesse precedenti, è stato il fenomeno del Barbenheimer:
l’ironica concorrenza (in realtà visione appaiata) fra due film di tono molto diverso ma entrambi di grande successo, seppur su differenti ordini di grandezza, Barbie e Oppenheimer.
Rispetto ad altri premi, in realtà, l’Academy ha candidato e soprattutto premiato meno il film di Greta Gerwig (8 nomination e una sola vittoria, per la canzone di Billie Eilish e Finneas O’Connell): in particolare, non sono state candidate la sopracitata regista né la protagonista Margot Robbie (se non come co-produttrice), causando qualche sollevamento di sopracciglio.
A dire il vero, forse, gli elementi più innovativi e degni di nota del film non risiedevano tanto nella regia o nei dialoghi, quanto piuttosto nel soggetto e nel comparto visivo. C’era comunque chi aveva paventato una vittoria del brano I’m just Ken come una conferma del maschilismo denunciato dal film, ma il brano non ha vinto, nonostante l’eccentrica esibizione di Gosling.
In ogni caso, gli Oscar non hanno rinunciato a giocare sul Barbenheimer, in uno sketch sul palcoscenico tra Gosling e Emily Blunt, candidati come non protagonisti nei rispettivi film. Viene da pensare che proprio lo scontro con Oppenheimer fosse lo scopo dell’inserimento di Barbie fra le Sceneggiature Non Originali (ufficialmente perché ispirato alle bambole Mattel), scelta che separa questi da altri premi come i BAFTA o i Critics’ Choice.
Resta il film di Christopher Nolan il vincitore assoluto e designato, con 13 candidature e 7 Oscar vinti – un margine per alcuni eccessivo e forse indigesto anche per uno storico snobismo dei “cinefili” fan del regista, ma che corrisponde a delle sicure qualità artistiche.
Prevedibilmente, una statuetta è stata assegnata anche ad American Fiction, l’esordio ai lungometraggi di Cord Jefferson.
In questa sorta di commedia drammatica, Jeffrey Wright mette in scena le proprie capacità attoriali interpretando uno scrittore e professore solitario in decadenza e che, solo fra le altre cose, è afroamericano.
Senza nulla voler spoilerare del colpo di scena finale, i due fili conduttori intrecciati in questa pellicola sono da un lato le pesanti vicissitudini familiari del protagonista e, dall’altro, il suo scontro con un’industria letteraria di pura exploitation e un mercato appiattito sullo stereotipo dell’autore nero.
Con l’escamotage della metanarrazione e dell’alter ego “gangster” creato appositamente dal professore per vendere di più, Jefferson incanala abilmente la critica sociale a una certa cultura perbenista americana in generi cinematografici anche piuttosto diversi, dall’umorismo al dramma passando quasi per il film d’azione.
Un mix che gli è valso l’Oscar per la Miglior Sceneggiatura Non Originale.
Solo una statuetta anche per The Holdovers. Lezioni di vita di Alexander Payne, ma tra le più importanti.
È l’attrice Da’Vine Joy Randolph (già nota per il suo ruolo della Detective Williams nella serie Only Murders in the Building) a trionfare, aggiudicandosi il premio come Miglior Attrice Non Protagonista. Nel film, Randolph interpreta la cuoca della Barton Academy Mary Lamb, che ha recentemente perso un figlio a causa della guerra in Vietnam. Siamo nel 1970 nel New England, è Natale e Mary si ritroverà a scuola insieme al Professor Paul Hunham – interpretato da un magistrale Paul Giamatti, tra i favoriti come Miglior Attore Protagonista – e altri giovani ragazzi, tra cui spicca Angus Tully, interpretato dalla giovane rivelazione Dominic Sessa.
Una storia emozionante e toccante, di crescita e di vita, che sicuramente si sarebbe meritata qualche riconoscimento in più, nonostante la questione su un’ipotesi di plagio riguardante la sceneggiatura (attualmente ancora aperta).
Anche per Anatomia di una caduta, pellicola diretta dalla regista francese Justine Triet, una sola statuetta, quella per Miglior Sceneggiatura Originale.
Molto singolare il fatto che un film francese sia stato nominato tra i Migliori Film ma non tra i Migliori Film Internazionali: i critici francesi hanno contestato la scelta di questo film, a loro avviso «troppo affollato di stereotipi che banalizzano la cultura francese». Inoltre, la scelta sembra motivata prevalentemente da motivi politici, più nello specifico, come riporta il Post, «dalle critiche che la regista ha rivolto al presidente francese Macron». Un vero peccato che un film così ben accolto dal pubblico internazionale, si sia visto mancare un’importante candidatura solo per motivi strettamente politici.
L’interpretazione di Sandra Hüller (anche in La zona d’interesse) è stata premiata con una nomination tra le Migliori Attrici Protagoniste. Un film forte e d’impatto, ma che invita a riflettere sul funzionamento della psiche umana e sulla diversità dei punti di vista con cui si osservano determinate situazioni, anche le più tragiche.
Sette candidature ma nessuna vittoria invece per Maestro di Bradley Cooper (disponibile anche su Netflix):
il film racconta la storia della vita del direttore d’orchestra Leonard Bernstein, interpretato dallo stesso Cooper, dalla giovinezza fino alla vecchiaia. Una pellicola molto particolare, caratterizzata dall’alternarsi di colori e bianco e nero, in cui spiccano i ruoli di Cooper e Carey Mulligan, che interpreta la moglie di Bernstein, Felicia Montealegre. Un bel film, accolto positivamente dalla critica, che è però passato in sordina rispetto a tanti altri lungometraggi con cui era in gara.
Molte candidature ma nessun Oscar nemmeno per Killers of the flower moon:
era del resto preventivato l’insuccesso di Martin Scorsese alla notte degli Oscar, con ben 10 candidature ma nessuna vittoria per la sua ultima opera, con protagonisti i suoi due pupilli Robert De Niro e Leonardo di Caprio e una fantastica Lily Gladstone, che ha fatto un lavoro superbo per questo progetto: diventando la prima vincitrice nativa americana ai Golden Globes e ai SAG Awards oltre che prima candidata nativa americana agli Oscar come Miglior Attrice Protagonista.
Killers of the flower moon , tratto dall’omonimo libro di David Grann, incentra il suo racconto su quanto accaduto in Oklahoma, nella contea di Osage agli inizi degli anni Venti del secondo scorso. Nella zona, sono stati scoperti giacimenti di petrolio che permisero alla tribù indiana di Osage di arricchirsi e attirare l’attenzione di moltissimi bianchi desiderosi di fare soldi sottraendo i giacimenti alla tribù.
In questo film temi cardini della cinematografia di Martin Scorsese, colpa e redenzione, sono sviluppati nell’accezione più triste parlando di uomini che rifiutano di assumersi responsabilità, rinnegando l’orrore che viene perpetuato.
Tra i nominati come Miglior Film Straniero, di grande rilevanza sono stati Io Capitano di Matteo Garrone e La zona d’interesse di Jonathan Glazer, entrambi tratti da storie vere e difficili.
La pellicola di Glazer intreccia un dialogo invisibile e terribile tra la normalità della famiglia di Rudolf Höss e sua moglie Hewig e la anormalità del genocidio oltre il muro.
Il muro è un simbolo di vera divisione, per cui chi è fuori e ciò che avviene fuori non può destare problemi a chi vive dentro. La storia principale è poi intervallata da un sogno, ripreso con delle camere termiche, di una bambina che di notte portava delle mele ai detenuti nel campo di lavoro. Il regista ha rilevato che l’idea di queste scene è nata dall’incontro con una donna polacca di 90 anni, Alexandria, che da piccola faceva parte della resistenza polacca al regime e con la sua bicicletta portava cibo ai detenuti. Di impatto è il fatto che sia la bicicletta che i vestiti sono davvero quelli di Alexandria, morta poche settimane dopo il loro incontro e che la musica che accompagna le scene sia stata composta da Thomas Wolf, prigioniero nel campo di concentramento di Auschwitz, e trovata da lei stessa.
Proprio La zona di interesse si è infine aggiudicato l’Oscar per la categoria.
Potente e inaspettato è stato il discorso tenuto da Glazer in seguito alla premiazione, con cui il regista ha preso una posizione netta in merito al massacro in corso nella Striscia di Gaza da ormai 6 mesi. Con poche frasi sobrie, Glazer ha calato la propria opera nel presente, denunciando ogni genocidio, conferendo valore al passato e allo stesso tempo rigettandone la strumentalizzazione.
«Il nostro film mostra dove la deumanizzazione conduce, nella sua forma peggiore […] oggi siamo qui come ebrei che rifiutano la loro ebraicità e la strumentalizzazione dell’Olocausto da parte di un’occupazione che ha portato al conflitto per così tante persone innocenti. Che si tratti delle vittime del 7 ottobre in Israele o dell’attacco in corso a Gaza, di tutte le vittime di questa deumanizzazione, come possiamo fare a opporre resistenza?».
Una pellicola particolarmente pregnante dunque, capace di denunciare gli orrori e le colpe dell’umanità di ieri tanto quanto di quella di oggi.
Pare allora fuori luogo parlare di un Garrone «battuto» e della «delusione» per la sconfitta di Io capitano, come hanno fatto molti quotidiani italiani:
come spesso accade, il dibattito si è appiattito più sul commento del risultato “negativo”, del resto atteso dato che il film di Glazer era il favorito, che non sulla riconosciuta efficacia del film. Esso ha infatti avuto il pregio di affrontare una narrazione dolorosa – quella della migrazione, dal Senegal all’Italia passando per le torture in Libia – senza «retorica» né «paternalismo», grazie alla regia di Garrone e alla talentuosa interpretazione dei due giovani attori protagonisti, Seydou Sarr e Moustapha Fall.
A peggiorare la situazione sono arrivati il clamoroso errore commesso da Televideo e rilanciato sui social ma soprattutto la controversa dichiarazione rilasciata da Massimo Ceccherini – che ha preso parte alla sceneggiatura del film – subito riecheggiata dall’attrice Sabrina Ferilli: battuta di cattivo gusto, indelicata caduta di stile o addirittura messaggio antisemita, poco importa, ancora una volta si è persa un’occasione di confronto e arricchimento culturale e siamo finiti impantanati nella bassezza del dibattito pubblico italiano.
Ciò non dovrebbe però distogliere l’attenzione dalla forza di Io capitano che, giunto alla nomination agli Oscar dopo il successo ottenuto al Festival di Venezia, dov’era stato premiato con il Leone d’argento alla regia e con il Premio Marcello Mastroianni miglior attore esordiente a Seydou Sarr, si è confrontato con quattro film altrettanto degni di nota – oltre a La zona di interesse, anche Perfect Days, La sala professori e La società della neve – uscendone a testa alta.
Io capitano è una storia di migrazione ma anche di scoperta di sé e del mondo, che vede protagonisti due giovani ragazzi senegalesi nel momento in cui decidono, all’insaputa delle famiglie, di partire per l’Italia e per l’Europa, inseguendo il sogno di diventare musicisti (qui per una trama dettagliata):
alla radice della narrazione, diretta da Garrone e da lui sceneggiata insieme a Ceccherini, Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri, ci sono le storie autentiche storie di Kouassi Pli Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke, and Siaka Doumbia.
L’indiscutibile spessore cinematografico e umano della pellicola, in grado di parlare alla società di oggi con un’immediatezza e una crudezza rare, pronta a metterci tutti – cittadini italiani e del mondo – di fronte alle nostre colpe, ai nostri rimossi, alla nostra terribile, sbalorditiva capacità di ignorare le morti, le torture, i viaggi disperati alla ricerca di un futuro che ci arroghiamo il diritto di negare, non dovrebbero quindi essere dimenticati.
Un riconoscimento significativo è stato attribuito anche al leggendario autore e regista giapponese ultraottantenne Hayao Miyazaki per il suo ultimo e straordinario film Il ragazzo e l’airone:
la pellicola è stata premiata come Miglior Film d’Animazione, a discapito dei film animati Spider-Man: Across the Spider-Verse ed Elemental, rispettivamente della Marvel Comics e della Disney-Pixar.
Non è la prima volta che il regista vince una statuetta. Infatti, Miyazaki ha dimostrato di essere un maestro nell’arte dell’animazione e i suoi film hanno ispirato e incantato tutto il mondo nel corso degli anni. Non a caso, lo Studio Ghibli e l’acclamato autore erano già stati premiati nella notte degli Oscar del 2003 con La città incantata.
Nonostante Il ragazzo e l’airone sia caratterizzato da un ritmo frenetico, una narrazione non lineare e una trama ricca di eventi apparentemente casuali o senza una chiara connessione, senza pretendere l’interpretazione precisa, Miyazaki riesce nel suo intento, come in tutti i film dello Studio Ghibli. Il ragazzo e l’airone non manca di fantasia, e il ricorrente topos miyazakico, che tende a richiamare la guerra mondiale, il lutto, il cambiamento, la crescita e la rievocazione del passato, fa da sfondo allo spiritismo, agli animali magici, ai messaggi allegorici e ovviamente a un viaggio incantato capace di far abbandonare il pubblico alla pura meraviglia.
Degna di menzione anche la vittoria di Wes Anderson per il Miglior Cortometraggio con La meravigliosa storia di Henry Sugar. Il corto era stato presentato all’80° Festival di Venezia ed è poi sbarcato su Netflix insieme ad altri tre cortometraggi. Sempre particolare ma estremamente affascinante, lo stile registico di Wes Anderson è unico e facilmente riconoscibile. Il cortometraggio vincitore è stato tratto da un racconto scritto da Roald Dahl e ha riscosso fin da subito un grandissimo successo.
La 96esima edizione degli Oscar ha visto Pinguino (Danny De Vito) e Mr. Freez (Arnold Schwarzenegger) coesi contro Batman (Michael Keaton) prima di premiare Yamazaki, Shibuya, Takahashi e Nojima per Godzilla Minus One, per i Migliori Effetti Speciali, con un budget di soli 15 milioni di dollari.
Battute più o meno divertenti sono state indirizzate dal presentatore ai nominati: in particolare Kimmel ha scherzato (scatenando non poche critiche) con Robert Downey Jr., vincitore della statuetta come Miglior Attore Non Protagonista, sul suo difficile passato.
«Viviamo nel mondo di Oppenheimer» sono le parole di Cillian Murphy, durante il suo discorso per la vittoria come Miglior Attore Protagonista. Paradossalmente la cerimonia, incentrata su un’opera che racconta la creazione della bomba atomica, un documentario sulla vita a Mariupol durante il conflitto russo-ucraino, e la disumanizzazione di cui parla La zona d’interesse, sono diventati il palcoscenico per riflettere sulla pace e sulla fine dei conflitti armati.
Citando Al Pacino «and my eyes see…» una bellissima edizione, condotta da Jimmy Kimmel della serata più attesa del mondo del cinema, che si può ribattezzare come “l’edizione delle prime volte”: molti sono stati, infatti, le professioniste e i professionisti candidati o vincitori per la prima volta. Una bellissima scoperta soprattutto in campo internazionale.